Articolo di Italo Cucci
Dal Secolo d'Italia di sabato 6 novembre 2010
Nei giorni scorsi quasi tutta la stampa ha ricordato Pier Paolo Pasolini in occasione dei trentacinque anni della sua tragica morte. E si è parlato - come ha fatto il Secolo - anche della capacità di quello straordinario intellettuale che fu il poeta e cineasta nato a Casarsa di attraversare e superare gli schemi destra/sinistra. E per confermarlo mi piace farlo attraverso alcuni miei ricordi tutti personali.
Era infatti la fine estate del 1956 quando personalmente arrivai a Livorno per sfuggire le "vasche" sul Corso di Rimini già odiate da tanti irrequieti concittadini prima di me. Uno di questi, Federico Fellini - e scusate se oso un minimo confronto - aveva detestato con tutte le forze quel Corso, e Rimini, il liceo classico Giulio Cesare reso sopportabile solo dalla presenza del preside, Arduino Olivieri, che Federico inserì nell'Amarcord e che nei Cinquanta era toccato anche a me, con i suoi singolari dittonghi che ci facevano impazzire: e infatti invece di dire - chessò - Sofia Loren diceva "Sofiga" Loren. Il Corso era uno stupido luogo di banali pettegolezzi tutti basati sull'ars amandi degli indigeni, quelli che si dicevan "birri" al modo dei caproni, donnaioli impenitenti, maschilisti sciupafemmine e persecutori di "busoni". Sul Corso era tornato, Federico, una volta, a metà dei Cinquanta, e già era l'affermato regista dei Vitelloni, un film così rappresentativo della patacagine riminese che molti pataca si erano incazzati: chi crede di essere, lui - dicevano - che viene da Gambettola? Quella volta, superato il bar di Raul, s'imbattè in Pasquini, quello che "dava le luci" all'Embassy, alla Casina del Bosco e forse anche all'Oriental Park: «Ciao», «Ciao», poi Pasquini finse la gentilezza d'interessarsi: «Csa fet a Ramma, Federico?». Già: cosa ci fai, a Roma? Due anni dopo Federico prese l'Oscar per La strada…
Via da Rimini, a Livorno, anche perché allora c'era un treno rivoluzionario che si chiamava "La Freccia dei Due Mari", una littorina la quale partiva da Ancona e arrivava a Livorno diretta in poche ore, oggi ci vuole un giorno intero. Si usava - a quei tempi - e non era un romanzo, "va' dove ti porta il treno". Si respirava amore e cultura, fra il Nicolini, il Grattacielo e la Gran Guardia, fra Piazza Cavour e Piazza Grande, professoroni, jazzmen di grido e primattori di teatro eppoi tutti quegli americani che rovesciavano a Piazza Venti (Settembre) sigarette eccellenti, abbigliamento di tipo militare, jeans veri e V-Disc con tutti i languori di Frank e Nat e le sinfonie del Duke. A Piazza Cavour c'era Rubapoco, titolare di una bancarella di libri usati e nuovi, e lì cominciai a rovinarmi.
Pur animato da ben altri sacri furori (prima tessera della Giovane Italia riminese, nel 1954, che ci voleva coraggio solo a pensarci) mi lasciai tentare da Pier Paolo Pasolini, "quel" Pasolini che l'amico bolognese della jazzofila in cui suonava anche Pupi Avati diceva «l'è un busen» e non gli piaceva che fosse nato a Bologna. E io invece restai affascinato dal Poeta, finchè osai addirittura trovare in lui una vena pascoliana che quando ne parlai in classe fece indignare il mio professore di storia e filosofia Luigi Badaloni, già quel Badaloni lì, l'ultimo presidente del Piccì morente fra la Bolognina e il ridicolo. Fra l'altro Pascoli aveva insegnato proprio al Nicolini, nel 1887, perduto con un magro stipendio e una gattina bianca in una Livorno ostile che gli rinfacciava anche di raccattare qualche lira con lezioni private ai ragazzini, ahi ahi... Liceale un po' narciso raccontavo che quel Pascoli lì aveva studiato a Rimini proprio nel mio stesso liceo Giulio Cesare e da quei luoghi di Romagna s'era portato un pesante bagaglio di sentimenti, il tragico ricordo del padre, le fin troppo amate sorelle Ida e Maria e il lontano Severino di Romagna cui indirizzava lettere a dir poco morbose («Col tornare della bella stagione, ricomincio non a pensare, ma addirittura a spasimare d'averti vicino» - e lui: «Giovannino, perché premermi la vena dell'affetto che poi sgorga in pianto?»). Il tutto racchiuso nel Fanciullino che ho ritrovato anche in certi passaggi pasoliniani, come quei versi che raccontano la fuga a Roma del 1950 dopo lo scandalo di Ramuscello, storia di molestie a ragazzini: «Fuggii con mia madre e una valigia e un po' di gioie che risultarono false / su un treno lento come un merci / per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve. / Andavamo verso Roma. / Avevamo dunque abbandonato mio padre / accanto a una stufetta di poveri / col suo vecchio pastrano militare / e le sue orrende furie di malato di cirrosi…». Ecco: a Livorno ho imparato ad amare Pasolini e non l'ho più lasciato, diventandone più tardi orgoglioso concittadino quando sbarcai a Bologna per restarvi un quarto di secolo. Aveva ragione Laura Betti quando diceva che loro due, bolognesi, non avrebbero mai dovuto lasciare la città rossa di muri, di tetti e di cervelli comunisti non ceduti all'ammasso come a Casarsa della Delizia (ah ah) donde Pier Paolo era stato cacciato dalla scuola e dal partito per indegnità - vergognate "reciòn" - e come a Roma, dove la denuncia-ricatto di un pupone benzinaro fece insorgere i parrucconi del picì che gli tolsero la tessera e la stima e anche i soldi come peraltro fecero anche con Dario Bellezza grande poverissimo poeta. A Pasolini, poi, Roma gli tolse anche la vita con quell'ultimo sfregio alla sua anima e alla sua bellezza.
«È ‘nu bello guaglione, dai retta a me», mi disse di lui la Bianca Del Duca, la ballerina del Mokò del Pavaglione che si esibiva nello straordinario numero delle sue tettone che giravano a velocità vorticosa una verso destra e l'altra verso sinistra con due fiocchetti in punta di capezzolo a dimostrare l'eccezionale performance mentre l'orchestrina suonava « e mettete a camesella». Lo conosceva bene, la Bianca, perché "il professorino" - così lo chiamava - aveva abitato per qualche tempo all'Hotel Stella d'Italia, piena via Rizzoli davanti a Palazzo Re Enzo, il Nettuno, San Petronio e il Palazzo d'Accursio con dentro il sindaco Beppone Dozza che Dio l'abbia in gloria; e me ne parlava, la Bianca, che della Stella d'Italia era inquilina da sempre, quando vi misi piede io, nel Sessanta, perché era l'unico albergo che con mille lire al giorno mi dava una cameretta e la sera una minestrina in brodo che qualche volta mandavo giù con le lacrime. Ma Bologna fece presto ad adottarmi e a farmi felice, proprio come aveva fatto con Pasolini perché nel cittadone emiliano non c'erano dirigenti comunisti trinariciuti o ipocriti, perché lì tutti facevano l'amore, uomini con donne, donne con donne, uomini con uomini e non era scandalo, semmai motivo di grasse risate che finivano immancabilmente con lo slogan della tolleranza, «Busèn e leder!», «Leder po' no», e l'aggiunta «on di ‘sti dè ci provo». Adesso non scandalizzatevi voi se dico che in quella città «sazia e disperata» come la trovò il mio amatissimo cardinale Biffi non s'è comunque mai perso il senso del limite, proprio perché saper dove fermarsi è garanzia della libertà di tutti. Pasolini c'era stato bene e ci tornava: a insegnare, a chiacchierare fra incantati cortigiani con quella sua voce che Zeri aveva definito "bellissima"; e a giocare a pallone, mica - come dice oggi Ninetto Davoli - con quel tanto di snobismo e di stupidera di chi fa parte della Nazionale degli Attori, o dei Cantanti o di chissà cosa; no, Pier Paolo andava al Littoriale con Bulgarelli e Pascutti, metteva la sua bella maglia rossoblù e giocava, giocava da Dio, leggero ma taraghigno, veloce e incisivo proprio come quel Biavati Medeo inventore del passo doppio cui s'ispirava e del quale ricordava l'immarcescibile aneddoto: dopo il Mondiale del Trentotto che Biavati aveva vinto con l'Italia di Pozzo, un visitatore era andato a casa sua, aveva suonato il campanello e alla signora apparsa alla finestra - la mamma - aveva chiesto «c'è il signor Biavati?», e lei: «Chi volel, l'inzgnir o al campion dal mand».
Ma se n'era andato, Pasolini, in quella Roma che prima della morte gli concesse anche di godere un bel successo per libri e film, fama imperitura, pellicola di qualità, pagine eccellenti fra le quali - quante volte ne ho parlato - quelle note calcistiche passate alla storia del futbòl come "podemi", una magica scrittura del gioco dei piedi usata con maestria da Rivera, Mazzola, Riva e Bulgarelli, i suoi idoli. Poi tornò a Bologna, nel primo autunno del Settantacinque, per una lezione all'Alma Mater. Claudio Sabattini, il caporedattore del mio Guerino, ancora molto lotta continua ma intelligente, mi chiese se poteva fargli un'intervista, insomma se l'avrei pubblicata: non sapeva della mia passione per il Poeta, gli dissi di salutarlo e di chiedergli se fosse vera la sua romagnolità per nobile discendenza dai Pasolini di Ravenna. Poi non ne seppi più nulla. Fino a quella sera. Era domenica, il 2 novembre del 1975, quando sapemmo della morte di Pier Paolo Pasolini, e nella piccola famiglia del Guerin Sportivo non parlavamo d'altro, non c'era voglia di campionato. Claudio - che ora non c'è più - mi disse «faccio un salto a casa» e dopo mezz'ora tornò con una busta gialla, di quelle da ufficio statale, e me la consegnò: «È arrivata venerdì». Dentro c'erano, vergati a mano, quattro fogli di notes con le risposte alle domande che Sabattini aveva consegnato al Poeta quel giorno all'Università. L'ultima intervista prima di essere ucciso, una sorta di testamento per i giovani, con la leggerezza del calcio innanzitutto. Eravamo tutti compresi di quel dono, in redazione. Cominciai a frugare nel mio album di diapositive "speciali" - ce l'ho ancora - finchè non venne fuori quella foto di Pier Paolo Pasolini in maglia rossoblù e una faccia bella, quella faccia ch'era piaciuta anche alla Bianca Del Duca. La misi in copertina del Guerino, mettendo a rischio la vita di un settimanale storico che stava faticosamente uscendo dalla crisi e sopportava solo facce da calcio. Quella volta vendemmo più di centomila copie, un bòtto, e allora capii che avevo in mano un giornale straordinario degno di una gioventù che l'avrebbe scelto compagno di lettura, di penna e di pensiero per vent'anni.
Italo Cucci
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