Jovanotti "il barbaro" canta la modernità alla maniera di Baricco
Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 30 dicembre 2011
Jovanotti ha innanzitutto un pregio: si entusiasma con facilità. Jovanotti ha innanzitutto un difetto: si entusiasma con troppa facilità. È come se non avesse nessun filtro efficace, nessun riferimento preciso, nessun criterio stabile. È come se la sua unica forma di giudizio fosse una constatazione: la constatazione che una cosa gli piace e un'altra no. E che gli piace, bisogna aggiungere, qui e adesso. Domani chissà. Tra un'ora chissà. Tra un secondo e mezzo, chissà.
È un atteggiamento sempre più diffuso, d'altronde. Per dirla con Baricco, equivale all'avvento dei "barbari". I quali, ancora prima che essere diversi nelle loro caratteristiche e nelle loro preferenze, sono diversi nel modo in cui le vivono e in cui vi si rapportano. Proprio in quanto barbari, cioè non civilizzati, non avvertono la benché minima necessità di chiarire i motivi per cui sono come sono e fanno quello che fanno. Non essendo avvezzi, o sottomessi, alla disciplina del pensiero logico e sistematico, non danno spiegazioni. Non le danno agli altri e non le danno a se stessi. Non le danno per un motivo semplicissimo: non sentendo il bisogno di cercarle non le possiedono. La loro sicurezza è istintiva. Le loro verifiche sono immediate: se qualcosa li fa stare bene vuol dire che è buono. Se li fa stare male vuol dire che è cattivo. «Nelle canzoni - dice Jovanotti - cerco soprattutto un benessere fisico. Specialmente nelle mie».
I rischi sono inevitabili. E il primo, da cui discendono tutti gli altri, è valutare quello che si fa sulla base delle sensazioni del momento. O, ancora peggio, sull'onda di stati d'animo che possono dipendere da una miriade di altri fattori e che, perciò, finiscono con l'essere fuorvianti, ribaltando il rapporto tra l'individuo e la sua opera. È davvero la canzone che è buona, o sei tu che sei di buon umore? La canzone ha davvero un suo valore, o sei tu che per ragioni extra artistiche la trovi accattivante, o persino incantevole? È il classico problema delle fotografie di viaggio. Sono le immagini che hanno qualcosa di autenticamente speciale o tutta la loro "magia" si riduce al fatto che rispecchiano dei ricordi gradevoli, come certi brutti souvenir che hanno comunque il potere di rievocare dei bei momenti?
Jovanotti racconta di aver riversato in questo nuovo cd, che esce in una duplice versione a uno e a due dischi, tutto quello che ha realizzato nei nove mesi che ha passato in studio. Un totale di 25 pezzi. Parecchio diversi sia per scrittura che per allestimento. Con le solite, forti oscillazioni tra il meglio e il peggio del suo modo di esprimersi. Con quella sua tipica e sconcertante disparità di risultati: non solo da un brano all'altro, come in fondo può accadere a tutti, ma persino nella stessa canzone, o nella stessa strofa. A volte comincia così così e di colpo spicca il volo, con un'intuizione che sorprende. Altre volte il contrario. Sarebbe la cosa più naturale del mondo, se accadesse solo nella fase in cui si sta ancora cercando la stesura finale. L'ispirazione non è quasi mai un flusso omogeneo: due versi arrivano subito, il terzo ti fa dannare; una metafora è magnifica, un'altra fa schifo. La melodia è limpida, il ritornello sfocato. O viceversa. Di solito basta insistere. Non avere fretta. Non lasciarsi prendere né dal timore di non farcela, né dalla sicumera di avercela già fatta. Di solito, se l'artista è paziente quanto basta, ed esigente quanto serve, il tentativo arriva a compimento. Eccolo qua, il maledetto terzo verso che mi ha fatto penare. Eccolo qua, il ritornello che corona la melodia.
A voler andare per le spicce, si potrebbe dire semplicemente (brutalmente) che 25 brani sono troppi. E se si volesse affondare il coltello nella piaga basterebbe citare Dabadabadance, che a essere gentili si può definire un divertissement, anche se non proprio dei più felici, ma che in effetti non ha né capo né cosa: ripetitivo al massimo, originale al minimo. Sembra una prova tecnica per sgranchirsi la voce. O un giochino innocuo durante una pausa delle registrazioni: qualcuno ha messo su questa base martellante e il cantante la segue sovrappensiero, dicendo la prima cosa - Dabadabadance - che gli passa per la testa.
Ma la questione, in realtà, è più complessa. Jovanotti è approdato a questo nuovo lavoro con due intenzioni ben precise. La prima era realizzare qualcosa di estremamente attuale. «Volevo fare un disco che potrebbe fare anche un bambino con Garage Band. Poi ovviamente non è così, perché tutti gli strumenti sono suonati e riversati sul computer. Volevo fare in modo che ci si innamorasse del nuovo. C'è una poesia di Bertold Brecht, che diceva: "Disprezza il vecchio e sostieni il nuovo". Quando eravamo in studio andavamo ad ascoltare i dischi di Lady Gaga, di Rihanna, dei Black Eyed Peas e di Deadmouse, uno che slega davvero. Questa è la musica di oggi, non voglio pensare che sia bella o brutta, ma questa è. Da lì siamo ripartiti».
La seconda intenzione era andare al di là dell'idea corrente di album. «È il primo disco - spiega - che non è un album ma una playlist». La differenza è sostanziale. Per quanto diversificato possa essere, un album postula comunque un qualche genere di unitarietà. E si suppone che, almeno una volta, lo si ascolterà da cima a fondo. Riconfigurandolo come playlist, invece, la sua globalità è solo apparente. I diversi pezzi sono sì riuniti in uno stesso supporto tecnico, il compact disc, ma non sono uniti da nulla. Ognuno di essi esiste indipendentemente dagli altri. E andrebbe fruito di conseguenza. La parola d'ordine diventa la scomposizione. Ogni singolo pezzo andrebbe estratto dalla sequenza in cui si trova e inserito in playlist ancora più ampie ed eterogenee.
Qualcosa di simile, del resto, tende a verificarsi all'interno di ciascun brano. I testi non tracciano storie ma tratteggiano personaggi. Anzi, percezioni. Sono frammenti disseminati tutto intorno, nel presupposto che anche uno solo di essi possa bastare a catalizzare l'attenzione dell'ascoltatore e a far scattare il coinvolgimento. O l'identificazione. «Mi sono posto il problema di essere moderno», precisa lui. «Cerco di entrare nella modernità del mio lavoro». Ma il problema non è entrarci, nel suo caso. Il problema è non restarci intrappolato.
Federico Zamboni
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