Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia del 28 gennaio 2011
Maccari e Bilenchi. Due tra i più fervidi protagonisti delle battaglie culturali del Novecento tornano in una bella testimonianza di amicizia e sodalizio intellettuale, che ci consente anche di ripensare, senza alcun tipo di paraocchi ma con ariosa lungimiranza, il secolo trascorso. Tutt'altro che "breve", anzi "sterminato" per quanto, tra nodi ancora irrisolti, riflette sul nostro tempo umori e malumori di più generazioni italiche. Ma immergiamoci in questo volumetto (Romano Bilenchi e Mino Maccari, Il gusto della fucileria, Cadmo, pp. 230, € 16,00), che raccoglie le lettere che i due senesi si scambiarono tra il 1927 e il 1972.
Un momento: abbiamo detto "i due senesi", ma per essere più precisi, avremmo dovuto dire "i due colligiani", perché le loro radici erano a Colle Val d'Elsa, provincia "profonda", dove, nel luglio del 1924, in piena tempesta Matteotti, nacque il maccariano Selvaggio cui collaborerà anche Bilenchi. In appendice al libro, che esce per i tipi della piccola ma agguerrita casa editrice di Fiesole nella collana "Bilenchiana", una scelta di testi di Mino e Romano. Utili a mettere ancor più a fuoco due arcitoscani e arcitaliani d'indubbia genialità e di altrettanto indubbia schiettezza, nel gran tumultuare di passioni che li videro sempre in prima linea. "Dentro" ci sono il Ventennio, la battaglia delle riviste di tendenza e di fronda, gli avvenimenti della politica, della letteratura, dell'arte, le grandi attese e i grandi tònfi della storia, le passioni, le illusioni, le delusioni di una generazione. "Dentro" c'è l'odore aspro della guerra e del dopoguerra, e ci sono i differenti approdi che non sciupano l'amicizia, anzi, se possibile, la rendono ancora più salda: Maccari tra i radicali del Mondo di Pannunzio e Bilenchi tra i comunisti, come direttore del quotidiano fiorentino Nuovo Corriere e per qualche mese anche di una rivista di formazione e dibattito culturale, col timbro dell'ufficialità Pci, come Il Contemporaneo. Tanta storia, mai storielle. Del resto, Maccari e Bilenchi io li ho conosciuti bene. E lo dico a costo di apparire presuntuoso, visto che Mino l'ho incontrato in due occasioni - prima metà degli anni '80, lunga intervista per Storia Illustrata sull'avventura del Selvaggio - e Romano una volta sola - seconda metà degli anni '80, rievocazione, sempre per Storia Illustrata, della figura di Berto Ricci e della battaglia "militante" dell'Universale. Troppo poco per parlare di una conoscenza approfondita? In apparenza, sì: eppure, in quelle conversazioni raccolsi "tanto". Mi presentai con in testa e nel cuore l'idea e l'immagine di un mondo: bene, ne ebbi conferma. E adesso, da questo epistolario viene una conferma ulteriore. Cerco di spiegarmi: non andavo in cerca di "nostalgie", ma di una irriverente, rissosa, generosa "complicità". Quella che li aveva legati indissolubilmente al fascismo, come militanti convinti, anche se sempre anticonformisti, al limite dell'eresia. Poi, erano venute le ferite che non si rimarginano, gli strappi che non si possono più ricucire. Con l'urgenza di dire "no, basta, non ci credo più, facciamola finita, vado da un'altra parte", ma anche con lo sguardo franco e la mente serena di chi sa ripensare e ripensarsi. E, facendolo, consente di capire il passato agli ignari, a quelli che sono venuti dopo. Ma che volevano "capire", che andavano a caccia di documenti, testimonianze, ricordi in prima persona magari feroci, ma sinceri, non potendo davvero accontentarsi di riassuntini livorosi e di facili schemi interpretativi. Con gli "ipse dixit" liquidatori sempre pronti a frantumare la storia in storielle ideologiche e "politicamente corrette". Dunque scorrettissime. Insomma, volevo (e questo "volevo", è chiaro, è il "volevamo" di buona parte di una generazione che fu sempre postfascista e che non sarà mai antifascista) capire che cos'era stato il fascismo di Mino e di Romano. Ebbene, pur con tutti i giudizi ferocemente "tranchant" che dall'uno e dall'altro mi vennero sul Mussolini che aveva seminato illusioni di rinnovamento politico e sociale, e fondamentalmente "tradito" tante attese, neppur "meritando" tanti sacrifici, e sul fascismo, troppo condizionato dagli eterni vizi degli italiani (conformismo, opportunismo, arroganza, retorica, relativismo morale) per vincere sui tempi lunghi la sfida rivoluzionaria; pur con tutto questo che esprimeva una chiara volontà di non far sconti a nessuno, vennero fuori anche altre considerazioni "significative". Il succo? Eccolo: nonostante tutto una non piccola parte dell'"itala gente dalle molte vite", aveva davvero "creduto, obbedito e combattuto" per la Nazione e per la Patria, per lo Stato e per l'Idea; non pochi intellettuali avevano saputo essere "uomini di penna e di spada"; e, infine c'era stata, per vent'anni, a dispetto della Dittatura e dei suoi interventi censori e repressivi, un'atmosfera carica di creatività, con un vivace dibattito politico e civile, e un bel po' di realizzazioni concrete che avevano fatto crescere il Paese.
E un'altra cosa ancora, la più interessante dal punto di vista delle idee: il fascismo, come veniva fuori dalle parole di Mino e Romano, dunque il "loro" fascismo ma anche quello della stragrande maggioranza dei fascisti militanti, era stato la continuazione del Risorgimento "garibaldino", con tutti i pregi e tutti i difetti di quella ardente avventura tricolore. Dunque un fenomeno più che mai italiano: il solo veramente italiano. Si aggiunga che era apparso a molti la conclusione naturale del movimentismo novecentesco, con le riviste fiorentine, le avanguardie artistiche, le sfide politiche trasversali, l'eresia mussoliniana, l'interventismo della sinistra eccentrica (sindacalista, repubblicana, libertaria ecc), il mito rivoluzionario di Fiume, l'appuntamento sansepolcrista così variegato in colori e sfumature. Era una sintesi nazionalpopolare, di destra perché "nazionale", di sinistra perché "popolare", quella in cui aveva creduto Maccari quando voleva armare contro l'eterna Roma ministeriale dei palazzi e quella, appena ritoccata, del fascismo normalizzatore, la provincia toscana selvaggia, ovvero il cuore, l'anima e il sangue dell'Italia più profonda e più vera? E che tipo era, chi era, che cosa voleva veramente l'ex-Nano di Strapaese che, un po' scherzando e un po' no, mi diceva che se fosse tornato il Fascismo, ebbene, avrebbe aderito, però solo se avesse potuto dirigere il Partito? E il Bilenchi, che aveva pubblicato sul Selvaggio una "Vita di Pisto", in cui celebrava le imprese del nonno garibaldino, avvilite dal socialismo e rivitalizzante dal fascismo, e che con Ricci aveva fatto L'Universale, lanciando da una parte l'appello all'Impero, dantescamente e umanisticamente foggiato, dunque nemico di ogni colonialismo predatore, e dall'altra quello alla rivoluzione sociale, per farla finita, una volta per tutta, col capitalismo sfruttatore; quel Bilenchi, che già nel 1942 era iscritto al PCI clandestino ma che, apprezzatissimo per certi racconti come "Il Capofabbrica", con l'eroe operaio in camicia nera ma su un bello sfondo rosso, era stato tra i primi ad essere chiamato da Bottai a collaborare a Primato; questo Bilenchi, che ora mi parlava di Berto Ricci con la stessa commozione che avevo visto negli occhi di un altro collaboratore dell'Universale, e cioè Indro Montanelli, da quale Italia veniva, in quale Italia sperava, se ancora sperava in qualcosa? Ripenso a questi due "vecchi fusti", oggi, ritrovando nell'epistolario, insieme a una grande amicizia, quel sogno che intuii come una testarda, disperata speranza, discorrendo con loro. E mi chiedo se era impossibile, se è impossibile un'Italia degli italiani, con un popolo e degli intellettuali "in piedi", capaci di lavorare per il futuro.
Mario Bernardi Guardi
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