Dal Secolo d'Italia del 29 gennaio 2011
«Si vede una figura correre lungo la linea, dimenarsi e scrollarsi di dosso gli avversari, correre con determinazione contro gli altri difensori, fintare, saltare, barcollare, raddrizzarsi, riprendere a correre, cercare a fatica un altro varco, fintare nuovamente, piegare le ginocchia e tuffarsi oltre, rotolandosi trionfante. Era touchdown».
Jack Kerouac si racconta così in The town and the city, il suo primo romanzo, nascondendosi – ma neanche tanto – dietro al personaggio di Peter Martin, il liceale di provincia che si conquista l’accesso a una celebre università grazie alle sue straordinarie prestazioni sul campo da cento yard del football americano. Senza zaino sulle spalle ma con una borsa di studio, per meriti sportivi.
Jack Kerouac si racconta così in The town and the city, il suo primo romanzo, nascondendosi – ma neanche tanto – dietro al personaggio di Peter Martin, il liceale di provincia che si conquista l’accesso a una celebre università grazie alle sue straordinarie prestazioni sul campo da cento yard del football americano. Senza zaino sulle spalle ma con una borsa di studio, per meriti sportivi.
Altro che sulla strada. Altro che vagabondaggi da una costa all’altra degli States. Se alla fine non l’avessero placcato – e soprattutto se non si fosse fratturato la tibia nel tentativo di avvitarsi e sfuggire alla presa – Kerouac avrebbe continuato instancabilmente a fare su e giù per il terreno di gioco. Con buona pace di «Ferlinghetti e di un sacco di altra gente che prima mi sono saltati sulle spalle e poi sono caduti in una trappola comunista».
Sì, il grande scrittore americano, «violentemente contrario – per dirla con William Burroughs – a qualsiasi genere di ideologia di sinistra», prima di dedicarsi alla scrittura è stato una delle promesse dello sport a stelle e strisce, corteggiato da università, società sportive e allenatori di primissimo piano. Una leggenda? Assolutamente no. «Potete dire che sono uno spaccone sulle faccende delle partite – scriveva lo stesso Kerouac – ma tutti questi dati si possono trovare negli archivi dei giornali». Dati che ora, insieme a testimonianze e scritti biografici dello stesso scrittore, sono stati raccolti e raccontati da Fausto Batella – commentatore e storico del football – in Jack Kerouac Halfback (Pendragon, pp. 107 € 14).
E in copertina c’è proprio lui: il futuro padre della beat generation ritratto nell’autunno del ’40, diciottenne, con la divisa della squadra di football della Columbia University. La più forte della Grande Mela, almeno a livello di scuole preparatorie. L’anticamera di un professionismo sempre più popolare e ricco. Se l’erano conteso le istituzioni accademiche più prestigiose a suon di colpi bassi. Persino facendo pressioni sul proprietario dello stabilimento tipografico dove lavorava il padre Leo, promettendo commesse in cambio dell’ingaggio di quel ragazzo con le ali ai piedi.
Aveva scelto New York e la Columbia, una decisione che al padre costò il lavoro – «perché io non ero voluto andare in una scuola di gesuiti» – ma che gli cambierà radicalmente la vita: incontrerà le persone e maturerà le esperienze che faranno di questo individualista a vocazione libertaria il punto di riferimento e il modello – per certi versi, suo malgrado – di intere generazioni. «Celebrato – hanno scritto Barry Gifford e Lawrence Lee nella puntuale biografia Jack’s Book (Fandango libri) – come l’incarnazione di un movimento che lui non aveva né il desiderio né la capacità di promuovere».
«Ci si ammazza per arrivare alla tomba. In particolare, ci si ammazza per arrivare alla tomba persino prima di essere morti e il nome di quella tomba è “successo”, il nome di quella tomba è casino, frastuono e cazzate», scriveva Kerouac. Perché se Jack London avrebbe preferito «di gran lunga diventare il campione del mondo dei pesi massimi di pugilato piuttosto che il re d’Inghilterra» e Albert Camus si dice rimpiangesse il suo passato di portiere di calcio, lui si sentiva predestinato a un luminoso futuro sportivo. A tredici anni – racconta Batella – è già un talento, animato da una determinazione feroce. Non c’è giornata ventosa che non lo veda allenarsi su campi improvvisati e polverosi. Prepara le battaglie del sabato con i figli dei franco-canadesi (come lui), dei greci e dei polacchi, come se fossero tutte partite della vita. Fino a quando arriva l’occasione a lungo attesa: staccare il biglietto per tentare di affermarsi a livello nazionale. Nel giorno del Ringraziamento – davanti a 18mila spettatori e soprattutto alla presenza degli “scout” in cerca dei ragazzi migliori – il suo Lowell affronta i rivali di Lawrence nella la sfida più importante della stagione. Jack parte dalla panchina, poi entra in campo e realizza il touchdown che decide l’incontro.
«Questa partita – scriverà anni dopo – rimane nella mia memoria come la più bella che io abbia mai disputato, anche la più significativa, perché sono stato usato come un cavallo da tiro senza gloria, giocando in una maniera che solo un osservatore professionista avrebbe potuto applaudire, una partita solitaria e segreta affrontata con il sangue e il fango sulle labbra».
Tanto bella e convincente da catapultarlo dal Massachussetts a New York. Giusto il tempo, per la madre, di comprargli una giacca sportiva e una camicia a quadri e affidarlo a una parente a Brooklyn. Sveglia all’alba tutti i giorni, due ore di metropolitana e mattinata in aula con i rampolli della borghesia di origine ebraica e irlandese, tra «un tuffo nelle guerre dell’antica Grecia e un altro nella vasca di chimica». Nel pomeriggio, lavoro duro sul campo. «In un certo modo – dirà – stavo ripagando per bene mio padre dell’umiliazione di essere stato licenziato a causa mia». Si allena a colpire controvento, a fintare una corsa e poi a calciare con rapidità utilizzando traiettorie basse e corte. Una buona tecnica di base e la sua ferrea volontà gli valgono il ruolo da titolare nella Horace Mann. L’annuario della stagione 1939-1940 parla chiaro: «autore di notevoli prove individuali, mai viste sui campi dei bianco-marroni, ha contribuito in modo essenziale alla conquista della vetta della classifica, è stato il back più veloce della squadra».
Non solo football, però. «Qualche volta – riferisce Batella – salterà le lezioni e la pratica sportiva, per uscire fuori dalla metro in una radiosa mattinata autunnale a Times Square e perdersi tra l’eccitante repertorio della gente in giro per la metropoli, occhi spalancati, sensi all’erta. Una puntata all’Apollo Theater, film novità e rivista. Eccitato, affamato, innamorato dei distributori automatici di bibite e frappé, del jazz e della confusione dorata delle strade». Scrive allora i primi articoli per il giornale della scuola, commenta le interviste effettuate nel backstage di musicisti celebri, ma senza smettere di lottare sul campo.
Neanche la frattura della tibia lo ferma definitivamente. Lo stop è lungo e ne approfitta per godersi la città, sia pure con le grucce. Passa l’estate a casa, ma al ritorno tutto sembra più complicato: la guerra è arrivata e si è portata via gli atleti anziani, con il coach non si intende, con qualche compagno sono scintille. Prova a tagliare i ponti con la città, il college e il football, inizia a coltivare l’ambizione di scrivere e per arrotondare si misura con lavori estemporanei. Da New York, tuttavia, non mollano: deve riprendere il posto in squadra. Si lascia convincere, torna. Una panchina di troppo, però, gli fa capire che è giunta l’ora di mettersi sulla strada.
Così Batella ricostruisce quei momenti del dicembre ’42: «Kerouac ascolta la radio, decide una volta per tutte di farla finita con la palla ovale, entra nella stanza accanto dove uno studente sta suonando al pianoforte alcuni brani di jazz, va in un’altra stanza a bere del bourbon e non risponde ai compagni di squadra che lo chiamano giù dal cortile pieno di neve. Raccatta le sue cose e la sua sacca e via».
Lo racconta, del resto, lo stesso Kerouac nel romanzo Vanità di Duluoz, anch’esso ricco di spunti sul football: «Presi la metropolitana per la stazione degli autobus e acquistai un biglietto per il Sud. Volevo vedere il Sud e iniziare la mia carriera di sbandato americano. Era stata la decisione più importante della vita. Ciò che stavo facendo era dire a tutti di andare a buttarsi nel grande e grosso oceano delle proprie follie».
Il resto della storia la conosciamo: dopo una parentesi nella "US Naval Air Force", attraversa l’America in lungo e in largo dalla fine del ’46 all’estate del ’52, anno in cui pubblicherà il suo primo libro e il New York Times certificherà la nascita della beat generation che, al di là delle intenzioni dei suoi protagonisti, finirà per trasformarsi in qualcosa di molto diverso da quel che cercava Kerouac: inviolabilità dell’amicizia, voglia di avventura e desiderio di autenticità. Tanto da costringerlo a prendere le distanze dai compagni di strada quanto da quei fans che avrebbero voluto fare di un “manuale” libertario come On the road il manifesto ideologico di una sinistra in cerca di identità. Al mondo della palla ovale – cui Batella dedica nelle ultime pagine del libro un prezioso glossario e una breve storia delle origini – rimarranno soltanto i suoi anni verdi e qualche buona pagina di sport.
Roberto Alfatti Appetiti
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