Dal Secolo d'Italia del 19 febbraio 2011
In confronto a quello che ha subìto lui nel corso della sua breve ma intensa vita, gli insulti “razzisti” rivolti a Mario Balotelli nei nostri stadi sono carezze e fiori. Lui è Jackie Robinson, il primo afroamericano ad aver giocato nelle Major League di baseball, incluso da Barack Obama tra i tredici grandi personaggi che con il loro esempio hanno cambiato il corso della storia: «Jackie Robinson – ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti – ci ha mostrato come trasformare la paura in rispetto». A raccontarcene la storia e a restituirci uno spaccato delle sconcertanti contraddizioni dell’America del secondo dopoguerra è Scott Simon (Chicago, 1952) nel suo Il mio nome è Jackie Robinson (Edizioni 66thand2nd, pp. 170, € 14), la cui edizione italiana è appena arrivata in libreria.
«Un uomo può infilare un canestro, colpire una palla da baseball o brillare davanti a una macchina da presa – ci avverte il noto giornalista e conduttore radiofonico – ma i veri eroi rischiano la vita per gli altri». Tanto più in un paese che mostra ancora le cicatrici dell’11 settembre 2001, l’evento drammatico che ha costretto gli americani a rivedere il vocabolario nazionale e a usare la parola “eroe” con minore disinvoltura.
«Tuttavia – continua Simon – Jackie Robinson fu un eroe e, come fanno gli eroi, dedicò la sua vita a una grande impresa: scelse di sottoporsi alla sfida quotidiana e cruenta di fare da bersaglio per le palle ad altezza testa, per i tacchetti di ferro contro gli stinchi, il petto e il mento, per gli insulti razzisti che gli piovevano dalle tribune insieme a pomodori, fette di cocomero e sassi». Per non parlare delle minacce di morte rivolte a lui e alla sua famiglia, al disprezzo degli avversari, all’accesso negato negli alberghi e ristoranti “per bianchi” dove erano invece accolti trionfalmente i suoi compagni. Strano paese, l’America. Un giovane nero poteva essere chiamato a rischiare la vita nel Pacifico o in Normandia – sia pure prestando servizio, dormendo, mangiando e perfino combattendo in unità separate – ma non poteva frequentare le stesse scuole dei bianchi. Strano paese, davvero. Se i suoi soldati neri difendevano un’astratta idea di libertà, in patria alcuni di loro venivano addirittura impiccati – in Alabama, Mississippi, Georgia e Louisiana – con tanto di spettatori e macchine fotografiche. «E a volte persino alla presenza di ministri di culto», ricorda Simon.
A Robinson – nato a Ciro (Georgia) il 31 gennaio del 1919 e trasferitosi poco dopo in California – era stata risparmiata la vita ma non le discriminazioni. Ed è a causa di una delle più odiose che nel luglio 1944 venne congedato dall’esercito: aveva osato sedersi in un autobus, ma non nelle ultime file, quelle “riservate” ai neri. Per di più accanto a una donna. Corte marziale, pertanto. E solo l’essere già un atleta conosciuto lo aveva salvato da una sicura condanna: «divorzio consensuale», recitano gli atti.
La “rivoluzione” di cui fu protagonista, invece, accadde nel 1945: mentre le truppe americane si apprestavano a tornare a casa, un coraggioso dirigente dei Brooklyn Dodgers, Branch Richey, decise di ingaggiare l’allora ventiseienne Jackie Robinson. Fino a quel momento il grande baseball era rigorosamente segregato: soltanto i bianchi potevano accedervi. Ai neri rimaneva un torneo minore, parallelo eppure distante anni luce: la Negro League, un vero business per le società (ovviamente gestite dai visi pallidi) che affittavano loro – a suon di dollari – gli stadi per giocare.
Sessantaquattrenne, Rickey era di fede repubblicana, proprio come l’amatissimo sindaco di New York Fiorello La Guardia, prezioso alleato nella lotta alle discriminazioni, che aveva insediato una commissione ad hoc e sferrato un duro attacco politico alla segregazione nel baseball. Rickey, che arrivava da St. Louis, aveva già fatto parlare di sé per aver ospitato nella sua camera un giocatore nero cui l’albergo aveva rifiutato una stanza e, malgrado avesse sempre respinto l’immagine retorica del crociato dei diritti civili, si poneva il più ambizioso e difficile degli obiettivi: non vincere qualche partita, ma sconfiggere l’odio e abbattere la barriera del colore nel baseball.
Simon racconta il primo scambio di battute tra i due (nella foto): «Devo sapere se lei ha il fegato», chiede il dirigente al giocatore. «Vuole un giocatore senza il fegato di reagire?», gli domanda a sua volta Robinson. «Voglio un giocatore con il fegato di non reagire», chiude la partita Rickey. Per suggellare l’incontro, Rickey volle dare a Robinson un libro: una vecchia copia della Storia di Cristo di Giovanni Papini. Un esplicito invito a offrire l’altra guancia agli affronti spietati, terribili quanto ingiusti, che avrebbe di lì a poco dovuto sopportare e ai quali oppose sempre una compostezza superlativa. Sin dal primo viaggio per presentarsi al ritiro precampionato: lo fecero scendere dall’aereo – insieme alla giovane moglie, malgrado avessero i biglietti – per fare spazio a due bianchi. E sull’autobus gli fecero lasciare i sedili reclinabili per confinarli nei posti peggiori, nonostante il mezzo fosse semivuoto. Le città del Sud cancellarono le amichevoli già programmate a causa della sua presenza. Altrove uno sceriffo lo minacciò di arresto se non avesse abbandonato il campo, perché il codice della città non consentiva che bianchi e neri potessero giocare nello stesso campo.
Persino i suoi compagni di squadra dei Dodgers – «gli abbonati perenni ai piani bassi della classifica» che lui avrebbe trascinato alla vittoria della National League nel 1947 – lo accolsero con diffidenza e reazioni scomposte: alcuni vollero andare via, altri si rifiutarono di stringergli la mano. Eppure seppe conquistarsi l’affetto dei tifosi di Brooklyn come dell’America intera, tanto che la sua maglia col numero 42 è stata ritirata di baseball delle Major League in omaggio all’atleta che dovette appendere la sua prima divisa a un modesto attaccapanni perché non gli venne concesso neanche un armadietto.
Simon narra i suoi successi sportivi, la solidarietà dei compagni, a partire dal più celebre Pee Wee Reese, che – di fronte all’ennesimo coro di insulti – abbandonò la postazione e raggiunse Robinson per mettergli un braccio intorno al collo e incoraggiarlo. «Non ricordo cosa mi disse – riferì lo stesso Robinson anni dopo – ma mi colpì quello straordinario gesto di cameratismo». Fu così che i Dodgers, con il loro assortimento di uomini del Sud, siciliani e neri, divennero una specie di compagine simbolo della convivenza etnica, dimostrando come la forza, il coraggio personale e lo spirito di gruppo possano trasformare una esperienza sportiva nel migliore esempio di integrazione possibile.
Lasciato il baseball e prima di morire – nel 1972, a soli cinquantatre anni – Robinson divenne un attivista repubblicano, un uomo di "destra" convinto che la libera impresa fosse indispensabile alla libertà, ma proprio come tale si impegnò a favore del movimento per i diritti civili, «vittima dell’ostruzionismo di democratici del Sud come Richard Russell e Strom Thurmond». Ammirava Malcom X per i suoi appelli all’orgoglio dei neri, ma non poteva tollerare che si confinasse ad Harlem e lo rimproverò pubblicamente per l’assenza dai campi di battaglia dell’Alabama e del Mississippi, dove i neri – e anche molti bianchi – rischiavano la vita in nome della giustizia sociale. Dopo aver incontrato Jack Kennedy – «e averne giudicato fiacco l’impegno per i diritti civili: un’analisi che continua a sembrare esatta», scrive Simon – decise di sostenere Richard Nixon nella campagna presidenziale del 1960. Quattro anni dopo, invece, non sostenne Barry Goldwater, colpevole di aver votato contro il Civil Rights Bill.
Si domanda l’autore: «Sarebbe forse stata diversa, la politica americana degli ultimi trent’anni, con Jackie Robinson a rammentare alla destra le sue battaglie sui diritti civili?» Domanda che può trovare “cittadinanza” anche da noi: la nostra situazione non è certo quella drammatica dell’America del secondo dopoguerra ma molto c’è ancora da fare per fronteggiare una xenofobia latente che affiora, purtroppo, non solo negli stadi. E poi diciamocela tutta: gli Stati Uniti non avrebbero potuto vincere le loro sfide, né riprendersi dalla Grande Depressione, se nelle fabbriche, nei campi e nelle forze armate non avessero potuto contare sui neri. Noi, senza l’apporto dei nuovi italiani, rischiamo di condannarci a essere un paese per vecchi.
Roberto Alfatti Appetiti
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