Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia del 18 febbraio 2011
«Un socialismo bene inteso». Ero un bambino di otto-nove anni e mio padre rispose così alla mia domanda: «Che cos'è il fascismo?». Lui, che aveva fatto la Rsi e credeva al "non rinnegare, non restaurare" del giovanissimo Msi, mi portava con sé ai comizi della Fiamma. Ma, a domanda, risposta. «Un socialismo bene inteso». E cioè? «E cioè un socialismo inteso, rivolto al bene della persona e del popolo, della nazione e dello Stato». In quelle parole non potevo allora metterci grandi contenuti, motivazioni ideali, progetti: però mi piacevano, sentivo che erano giuste, mi "bastavano".
In ogni caso, negli anni a venire, con quell'imprimatur paterno, la mia cerca politica è stata anche una cerca del vero socialismo. Il lettore mi perdoni per questa incursione nel cosiddetto vissuto: ma credo di non esser lontano dal vero se dico che a molti della mia generazione la collocazione a destra non ha mai convinto. E per forza, visto che, con tutti i viaggi che avevamo fatto con i libri, e le testimonianze, e i dibattiti in cui c'eravamo appassionatamente tuffati, il legame tra socialismo e fascismo ci si era sempre riproposto. Proprio così: dai confronti/scontri veniva fuori chiaramente che ciò che ci attraeva, il fermeno dei movimentisti del Ventennio, quello della Rsi, e quello che, piaccia o non piaccia, appariva il nucleo più vitale del Msi e dintorni, era o poteva/doveva essere, o poteva/doveva diventare, un «socialismo bene inteso»: popolare, nazionale, comunitario e libertario. La lezione del babbo? Be', certo, ma anche quella della storia.
Mussolini, d'altronde, negli ultimi giorni di Salò, vagheggiò di trasferire i poteri della Rsi «ai socialisti e ai repubblicani», e cioè alle forze meno lontane da quello spirito rivoluzionario e libertario del '19, che, nel '43, nell'Italia invasa e divisa, aveva ripreso a soffiare potentemente. «Ai socialisti e ai repubblicani», non alle destre conservatrici, moderate o monarchiche. «Mine sociali per le valli del Po», riforme, rivoluzione, partecipazione, socializzazione. Questa l'eredità da far fruttificare, in nome di un'Italia riconciliata. Sogni? Velleitarismi? Mistificazioni retoriche? Si possono dare tutte le risposte che si vogliono - purché, possibilmente, siano argomentate e sgombre da pregiudiziali, da vulgate o da "ipse dixit" di sorta - ma una cosa è certa. E cioè che Mussolini, insieme a un bel po' di intellettuali, i suoi tentativi li fece, e che non tutto l'antifascismo si trasse indietro schifato dall'offerta. Insomma, nelle file della Resistenza c'era chi era pronto a trattare, non solo per contenere le furie scatenate della guerra civile, ma con in testa "una certa idea" dell'Italia. Tutto questo viene fuori dall'ultimo bel saggio di Stefano Fabei (I neri e i rossi. I tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella Repubblica di Mussolini, presentazione di Giuseppe Parlato, Mursia, pp. 344, € 22), in cui viene ricostruito, con dovizia di dati e date, nomi e cognomi, documenti e buoni argomenti, il cosiddetto "ponte" di Mussolini. Ovvero il progetto politico che prese corpo negli ultimi mesi della Rsi e che mirava non solo a rendere meno devastante la guerra civile, ma a creare i presupposti per un passaggio indolore del potere dai fascisti ai socialisti.
Certo, non era facile, perché, per ricorrere ad espressioni sin troppo abusate dal nostro attuale lessico politico Mussolini doveva barcamenarsi tra "falchi" e "colombe". Tra i primi spiccava un politico-intellettuale dal complesso profilo come Alessandro Pavolini, che, da scrittore raffinato, problematico e aperto agli spiriti liberi che si raccoglievano intorno al suo Bargello e a L'Universale dell'amico Berto Ricci, si era trasformato in una specie di monaco guerriero del fascismo più intransigente, pronto alla "bella morte", insieme a tanti altri che magari alla vittoria non credevano più, ma alla scelta estetica del sacrificio, sì.
Dalla parte dei "falchi" anche il ras di Cremona Roberto Farinacci, da molti considerato "l'uomo dei tedeschi", il ministro dell'Interno Guido Buffarini Guidi (sollevato dal suo incarico il 12 febbraio del 1945 e sostituito con Paolo Zerbino) e il ministro della Cultura popolare Fernando Mezzasoma (che poteva contare su un capo-gabinetto come Giorgio Almirante). Sul fronte delle "colombe", molte le teste pensanti: dal poeta, cieco di guerra e medaglia d'oro, Carlo Borsani, detestato da Pavolini per i suoi appelli a farla finita con l'odio fratricida (Borsani sarà ucciso spietatamente dai partigiani) a Renzo Montagna, capo della polizia della Rsi e difensore della legalità contro i fanatici della "giustizia sommaria", a Carlo Alberto Biggini, ministro dell'Educazione nazionale e uomo di grande competenza oltre che universalmente riconosciuto equilibrio al pari del collega Piero Pisenti, ministro della Giustizia. Numerosi, poi, gli intellettuali militanti, che facevano politica e scrivevano, convinti della loro scelta, ma sempre alieni da spirito di parte e con in testa un nuovo fascismo pluralista, e naturalmente aperto al confronto e sociale: Ugo Manunta, Edmondo Cione, Concetto Pettinato, Alberto Giovannini, Mirko Giobbe, Bruno Spampanato, Giorgio Pini, Ezio Maria Gray… Nomi importanti, che ritroveremo anche nel dibattito politico e culturale del dopoguerra. Non ci sarà, invece, il filosofo Giovanni Gentile, caduto sotto il piombo comunista nell'aprile del '44, ma fino allora in prima linea (si pensi al suo Discorso agli italiani e agli appelli della rivista Italia e Civiltà) nella battaglia per la pacificazione degli animi. Che, come mette in rilievo Stefano Fabei, nei primi mesi della Rsi, non era un'impresa del tutto impossibile: da più parti, le nuove autorità repubblicane si davano da fare per scongiurare lo scontro politico, mostrando disponibilità e generosità anche nei confronti di noti antifascisti, ed ovviamente ottenendo consensi. Poi c'erano anche i 18 punti sociali del Manifesto di Verona. Non potevano essere una base per lavorare insieme, mettendo da parte antiche contrapposizioni? Ma questo clima durò poco: agguati e rappresaglie gettarono ben presto l'Italia nella spirale della guerra civile. "Spes, ultima dea", comunque. Infatti, in uno scenario che vedeva il fascismo, vinto militarmente e politicamente, trattare col vincitore, e in un quadro contrassegnato da aspirazioni e motivazioni non omogenee, tra ambiguità e mezze promesse, tranelli e doppi giochi, i contatti ci furono e durarono per un anno e mezzo. Insomma, il ponte fu gettato.
Ma chi c'era su questa linea nel fronte antifascista? Basterà ricordare un esponente di spicco del Psiup come Corrado Bonfantini, responsabile delle formazioni militari socialiste, ex fuoriusciti repubblicani come i fratelli Bergamo attirati dal programma sociale rivoluzionario di Mussolini, uno spirito libero come Carlo Silvestri, il giornalista socialista che, nei giorni dell'affare Matteotti, aveva fatto fuoco e fiamme contro il leader fascista, salvo poi convincersi della sua innocenza, e, dopo la nascita di Salò, della sua rinnovata vocazione sociale. Il "ponte", dicevamo, fu gettato. Culturalmente e dealmente. E, sulla base dei colloqui intercorsi tra Bonfantini e il generale Niccolò Nicchiarelli, comandante della Gnr, avrebbe dovuto concretizzarsi nella costituzione di formazioni miste- denominate, con enfasi nera e rossa, "i Battaglioni del Popolo" - che, al comando di ufficiali della Gnr, avrebbero dovuto entrare in azione, garantendo l'ordine pubblico, al momento cruciale della ritirata tedesca. Ma il "ponte" crollò. Non piaceva a esponenti di primo piano del Cln come Lelio Basso e Sandro Pertini, socialisti che ci tenevano a essere autonomi dal Pci, ma che, per certi versi, erano più estremisti dei comunisti. Non piaceva ai fascisti giacobini, agli esteti della "bella morte" rivoluzionaria né a quei mistici, repubblichini ma, stavolta, reazionari, antimoderni ed esoterici, che vagheggiavano un ordine nuovo aristocratico, gerarchico, paganeggiante, e che sarebbero stati, nel dopoguerra, gli evoliani Figli del Sole. In rapporto di amore-odio con quel Msi che, nato nel dicembre del '46, all'insegna di Italia, Repubblica, socializzazione, sembrò volerlo ricostruire, il famoso "ponte". Qual è la lezione adesso, oltre sessant'anni dopo?
Mario Bernardi Guardi
1 commento:
Abbiamo oggi in Italia ministri che non sanno cos'è l'identità nazionale e meno ancora quel concetto profondo che si chiamava "senso dello Stato". Sarebbe bello, per uscire dalle macerie morali odierne, ricostruire un nuovo ponte tra uomini che amano la patria, che amano la nazione e la sua identità e hanno a cuore la giustizia sociale. Questo episodio sfortunato degli ultimi mesi della guerra, narratoci da Mario Bernardi Guardi, è poco conosciuto, ma merita grande attenzione. Fu un concreto esempio di uomini volenterosi che sulle comuni radici "sociali" unirono i loro sforzi per salvare il salvabile. Il loro generoso tentativo avrebbe di certo meritato maggiori fortune. I socialisti del "Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista" alla fine della guerra furono peraltro perseguiti dalla legge, in quanto considerati collaborazionisti. L'odio manicheo che con un colpo netto divide gli uomini in buoni e cattivi ebbe, una volta ancora, la meglio sull'amor di patria, che dovrebbe sempre venire prima dell'amore per le proprie idee politiche.
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