Dal Secolo d'Italia di martedì 8 febbraio 2011
«La testa contro le chiappe di Mellor, aspettavo che la palla gli sbucasse tra le gambe». No, non si tratta di un’intercettazione telefonica hard, né del materiale a luci rosse trafugato dall’archivio mondezzaio di Fabrizio Corona. È l’incipit de Il campione (66th and 2nd, pp. 330, € 17), il romanzo di David Storey che mancava in Italia da quasi mezzo secolo – la Feltrinelli lo pubblicò nel ’62 – e che adesso torna a suon di carica grazie alla piccola casa editrice romana specializzata in letteratura sportiva.
Il rugby – definito dall’autore inglese «il solo sport per uomini che sia rimasto»– si presenta così con un doppio appuntamento: col Sei Nazioni e in libreria. Godibile, sia che lo si possa gustare allo stadio come anche comodamente seduti in poltrona, lasciandoci avvincere dalle pagine del «Cechov del Nord», com’è stato definito Storey.
Nato nel ’33 a Wakefield, nello Yorkshire, è romanziere, poeta, drammaturgo, sceneggiatore e, non ultimo, un ex giocatore professionista di rugby. Del rugby proletario dei minatori e degli operai. Compensi e rimborsi spese vietati, nessun miraggio di carriera. Di chi – come capita al protagonista Arthur Machin, operaio in una fabbrica, nelle primissime pagine – non si scompone per niente se in uno scontro di gioco gli volano via tutti i denti davanti. L’importante è non saltare il terzo tempo. Al massimo rimandarlo di qualche ora. E trovare un dentista tifoso della squadra non è difficile, perché Arthur è l’idolo della cittadina di Primstone e combatte nella vita come sul campo contro la rassegnazione, la mediocrità e il conformismo che lo circondano.
In questo romanzo d’amore, sport, fango e nebbia – con cui l’allora ventisettenne Storey, figlio egli stesso di un minatore, segnava il suo esordio nella letteratura – appare nitida l’immagine dell’Inghilterra del Nord degli anni Sessanta. Esattamente com’era: dura, fredda, eternamente grigia per via della cenere delle miniere e delle industrie che tutto può coprire meno i cuori delle persone. The Guardian nei giorni scorsi, nella ricorrenza dei cinquant’anni dalla prima pubblicazione in Gran Bretagna, l’ha ricordato come «il miglior romanzo sportivo mai scritto» e probabilmente è vero. Di certo è stata un’opera cult per estimatori dichiarati come Doris Lessing, John Irving e David Peace.
E non è certo un caso se l’omonimo film – realizzato dal regista Lindsay Anderson (The sporting life nella versione originale, Io sono un campione in quella italiana – è stato inserito dal British Film Institute tra le cento migliori pellicole britanniche di sempre. Una lettura indispensabile per chi non ha perso il gusto di gettarsi nella mischia.
Roberto Alfatti Appetiti
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