Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia del 9 febbraio 2011
«Le tre domande che mi hanno fatto tutti sono: perché i fumetti? Perché i topi? Quello che mi ha obbligato a rituffarmi nella mia memoria personale». A venticinque anni dalla prima pubblicazione di Maus, il fumetto che attraverso topi e gatti umanizzati ha raccontato l'Olocausto, Art Spiegelman torna a fare parlare di sé.
«Sono impegnatissimo con il mio nuovo libro - dichiara - che uscirà negli Stati Uniti alla fine di quest'anno. Sarà un libro ma anche un dvd, con interviste, filmati, testimonianze che riguardano Maus a venticinque anni dalla sua prima uscita». Spiegelman è uno dei padri fondatori del romanzo a fumetti, il suo nome è stato inserito nella lista delle persone più influenti stilata da Time Magazine nel 2005, e due anni dopo è apparso in una puntata dei Simpson, come accade solo ai miti consacrati. «Il fatto curioso - sostiene il giornalista Luca Raffaelli - è che lo Spiegelman autore di fumetti è sempre macerato dai dubbi: anche nell'introduzione di Be a Nose!, la raccolta di schizzi pubblicata ora da Einaudi (pp. 270, € 30), parla dell'ansia da prestazione e delle sue paure».
Negli Stati Uniti Spiegelman è ritenuto uno di quegli autori che hanno contribuito a far crescere il genere fumettistico. Anche attraverso delle metafore, come quella dei topi, utilizzati dall'autore di Maus. Ma la storia dei topi nel mondo animato e dell'immaginario popolare ha origini ben radicate. Grazie al fumetto e al cinema d'animazione il topo è diventato simpatico protagonista di mille vicende fantastiche. E forse non tutti ricorderanno che tra i primi cortometraggi d'animazione vi furono alcune versioni della storia de Il topo di campagna e il topo di città da La Fontaine. Nel 1920, ad esempio, in Italia Carlo Alberto Zambonelli ne realizza uno per la Tiziano Film di Torino (che aveva creato una sezione apposita per i film a disegni animati), nel 1926 a Parigi viene prodotto Le rat de ville et le rat des champs di Ladislas Strarevitch. Si tratta di topi "tradizionali", ma è negli Stati Uniti che il topo diventa "personaggio" nel 1916, grazie alla trasposizione cinematografica di un eccellente (e forse anche conturbante per l'epoca) fumetto di George Herriman, Krazy Kat. Protagonista accanto all'immancabile gatto (qui gatta innamorata) ecco comparire Ignatz Mouse, suo inseparabile "amico", anticipando così (nella tipologia narrativa e nella caratterizzazione dei personaggi) le innumerevoli storie di centinaia di disegni animati successivi, che proprio sul contrasto tra gatto e topo (in lotta o in combutta) saranno costruiti.
Ricordiamo che negli stessi anni nasce Felix the Cat (gatto e topo, ancora una volta) grazie alla straordinaria capacità creativa di Pat Sullivan, che viene considerato dalla critica il trait-d'union tra Krazy Kat e il Mickey Mouse di Walt Disney. E forse è davvero destino che i topi portino fortuna al cinema d'animazione perché nessun personaggio ha avuto la medesima popolarità di Topolino.
Ecco come lo stesso Disney ne racconta la nascita: «Dovevamo sfornare duecento metri di pellicola ogni due settimane, perciò non potevamo permetterci un personaggio difficile da disegnare. La testa era un circolo e il muso un circolo oblungo. Anche gli orecchi erano circoli, e così potevano essere disegnati sempre nella stessa maniera, in qualunque modo voltasse la testa. Aveva il corpo a pera e la coda lunga. Le gambe erano bocchini di pipa, che infilammo in un paio di scarponi enormi perché Topolino avesse l'aria di un ragazzo con le scarpe di suo padre. Non volevamo fargli zampe da topo, perché doveva essere umanizzato e gli mettemmo i guanti. Cinque dita ci parvero troppe per un esserino così piccolo, e gliene levammo uno. Era un dito di meno da animare. Tanto per dargli qualcosa di particolare, gli mettemmo i calzoncini a due bottoni. Non aveva pelo di topo o altri impicci che rallentassero l'animazione. Ma proprio per questo era più difficile dargli carattere». Siamo nel 1928: nasceva il primo topo-divo. Da allora alcune tappe fondamentali della storia del cinema d'animazione sono state segnate da topo-protagonisti: Basil l'Investigatopo ha segnato la prima applicazione estensiva della computer grafica in un lungometraggio animato; quel piccolo topo è stato l'involontario artefice della fusione tra animazione 2D e 3D animation. E per arrivare al capitolo più recente di questa storia, Ratatouille, rappresenta il primo film in cui la più classica tradizione disneyana si sposa con la ormai più che consolidata capacità dello Studio Pixar.
Il topo-protagonista torna con lui ad assumere le sembianze dell'animale originale da cui aveva tratto ispirazione. Non è più il personaggio ricostruito (come Pixie & Dixie o il Jerry della celebre serie con Tom (nata nel 1940), entrambi realizzati da Hanna & Barbera) o quello con sembianze più o meno antropomorfe, che recentemente ritroviamo anche nel celebre film Giù per il tubo, ma il topo, anzi, in questo caso proprio il ratto, piuttosto ributtante che emerge della fogne. Eppure è simpatico e divertente. La storia pare sia nata ispirandosi a un precedente cortometraggio d'animazione intitolato Il mio amico Ben, in cui il piccolo e intelligentissimo topo Amos incontrava Benjamin Franklin, ispirandogli tutte le sue invenzioni. Un passo intermedio in questa trasformazione è stato fatto da Stuart Little, il piccolo e protagonista della serie omonima, un topolino bianco rivestito che interagisce con la famiglia umana che lo adotta, come fosse un figlio. Creato dallo scrittore E.B. White, Stuart Little è un personaggio molto amato dei libri per ragazzi nei paesi anglosassoni. Il suo aspetto cinematografico è stato creato dalla Imagework grazie al contributo di oltre 150 fra artisti, tecnici e collaboratori. Come si legge nella presentazione, «ci sono voluti più di mezzo milione di peli disegnati al computer per coprire la sua testa. Senza contare i dettagli minuziosi, dalle fossette sulle guance ai baffi. La Imagework ha sviluppato uno speciale software per illuminare digitalmente la pelliccia di Stuart anche come se fosse vero pelo, permettendo così agli artisti di modularne persino la brillantezza».
Ecco come lo stesso Disney ne racconta la nascita: «Dovevamo sfornare duecento metri di pellicola ogni due settimane, perciò non potevamo permetterci un personaggio difficile da disegnare. La testa era un circolo e il muso un circolo oblungo. Anche gli orecchi erano circoli, e così potevano essere disegnati sempre nella stessa maniera, in qualunque modo voltasse la testa. Aveva il corpo a pera e la coda lunga. Le gambe erano bocchini di pipa, che infilammo in un paio di scarponi enormi perché Topolino avesse l'aria di un ragazzo con le scarpe di suo padre. Non volevamo fargli zampe da topo, perché doveva essere umanizzato e gli mettemmo i guanti. Cinque dita ci parvero troppe per un esserino così piccolo, e gliene levammo uno. Era un dito di meno da animare. Tanto per dargli qualcosa di particolare, gli mettemmo i calzoncini a due bottoni. Non aveva pelo di topo o altri impicci che rallentassero l'animazione. Ma proprio per questo era più difficile dargli carattere». Siamo nel 1928: nasceva il primo topo-divo. Da allora alcune tappe fondamentali della storia del cinema d'animazione sono state segnate da topo-protagonisti: Basil l'Investigatopo ha segnato la prima applicazione estensiva della computer grafica in un lungometraggio animato; quel piccolo topo è stato l'involontario artefice della fusione tra animazione 2D e 3D animation. E per arrivare al capitolo più recente di questa storia, Ratatouille, rappresenta il primo film in cui la più classica tradizione disneyana si sposa con la ormai più che consolidata capacità dello Studio Pixar.
Il topo-protagonista torna con lui ad assumere le sembianze dell'animale originale da cui aveva tratto ispirazione. Non è più il personaggio ricostruito (come Pixie & Dixie o il Jerry della celebre serie con Tom (nata nel 1940), entrambi realizzati da Hanna & Barbera) o quello con sembianze più o meno antropomorfe, che recentemente ritroviamo anche nel celebre film Giù per il tubo, ma il topo, anzi, in questo caso proprio il ratto, piuttosto ributtante che emerge della fogne. Eppure è simpatico e divertente. La storia pare sia nata ispirandosi a un precedente cortometraggio d'animazione intitolato Il mio amico Ben, in cui il piccolo e intelligentissimo topo Amos incontrava Benjamin Franklin, ispirandogli tutte le sue invenzioni. Un passo intermedio in questa trasformazione è stato fatto da Stuart Little, il piccolo e protagonista della serie omonima, un topolino bianco rivestito che interagisce con la famiglia umana che lo adotta, come fosse un figlio. Creato dallo scrittore E.B. White, Stuart Little è un personaggio molto amato dei libri per ragazzi nei paesi anglosassoni. Il suo aspetto cinematografico è stato creato dalla Imagework grazie al contributo di oltre 150 fra artisti, tecnici e collaboratori. Come si legge nella presentazione, «ci sono voluti più di mezzo milione di peli disegnati al computer per coprire la sua testa. Senza contare i dettagli minuziosi, dalle fossette sulle guance ai baffi. La Imagework ha sviluppato uno speciale software per illuminare digitalmente la pelliccia di Stuart anche come se fosse vero pelo, permettendo così agli artisti di modularne persino la brillantezza».
Insomma, tempo e lavoro dedicato a questi personaggi può farci capire quanto il topo sia ancora vincente nell'immaginario collettivo. Una curiosità, ecco cosa pensa il topo Firmino, protagonista del romanzo cult di Sam Savage, dei suoi cugini letterari e cinematografici: «L'unico genere di letteratura che non riesco a tollerare è quella che riguarda i ratti, e anche i topi. Provo disprezzo nei confronti del buon vecchio Ratto del Vento nei salici. Su Topolino e Stuart Little, ci piscio sopra. Affabili, bonari, carini e astuti, mi rimangono conficcati in gola come lische». Ma c'è un dato che incuriosisce, per tornare all'elaborazione di Art Spiegelman. «Tutti mi chiedono - dice da sempre - perché ho scelto i topi. Semplice: perché rappresentano al meglio la condizione del ghetto». Sarà un caso, ma questa interpretazione lega in qualche maniera Maus a La Voce della Fogna, rivista underground della giovane destra anni Settanta, sulla cui copertina campeggiavano gli ormai celebri ratti disegnati dal francese Jack Marchal.
«Ben presto - spiegava a suo tempo Marco Tarchi - ci fu un'ondata di delusione verso il Msi, il bisogno di un'autocritica del nostalgismo perenne: la Voce della Fogna nasce da lì. E lì ci sono la necessità di contatti autonomi, per esempio con alcuni intellettuali francesi, oppure con quei giovani che avevano fatto il Sessantotto, la necessità di superare la sudditanza psicologica verso l'avversario, di recepire certe affinità con una certa estrema sinistra e il cattolicesimo popolare: non so, il senso dei "nuovi bisogni" e il solidarismo di Comunione e liberazione, il recupero delle autonomie locali, il pacifismo e il neutralismo. Verso la metà degli anni Settanta capimmo che non era più il tempo di continuare a sostenere la vecchia destra, che era tempo di uscire dal ghetto». Come topi che vogliono uscire fuori dalle fogne, ma anche come i protagonisti dei racconti di Spiegelman. Emblemi di un immaginario condiviso.
«Ben presto - spiegava a suo tempo Marco Tarchi - ci fu un'ondata di delusione verso il Msi, il bisogno di un'autocritica del nostalgismo perenne: la Voce della Fogna nasce da lì. E lì ci sono la necessità di contatti autonomi, per esempio con alcuni intellettuali francesi, oppure con quei giovani che avevano fatto il Sessantotto, la necessità di superare la sudditanza psicologica verso l'avversario, di recepire certe affinità con una certa estrema sinistra e il cattolicesimo popolare: non so, il senso dei "nuovi bisogni" e il solidarismo di Comunione e liberazione, il recupero delle autonomie locali, il pacifismo e il neutralismo. Verso la metà degli anni Settanta capimmo che non era più il tempo di continuare a sostenere la vecchia destra, che era tempo di uscire dal ghetto». Come topi che vogliono uscire fuori dalle fogne, ma anche come i protagonisti dei racconti di Spiegelman. Emblemi di un immaginario condiviso.
Giovanni Tarantino
Nessun commento:
Posta un commento