Articolo di Omar Camiletti
Dal Secolo d'Italia del 9 febbraio 2011
È difficile in questi giorni che nei blog, nei media, nella vita quotidiana del mondo islamico non si faccia riferimento alle rivolte inaspettatamente scoppiate in Tunisia e in Egitto. È interessante allora l'attenzione e la riflessione che alcuni intellettuali arabi focalizzano sui risvolti, sulle implicazioni sociali, politiche ma anche psicologiche di ciò che sta avvenendo.
Sui legami tra la Tunisia, l'Algeria e il Marocco ad esempio, Mohammed Sabila, professore di Filosofia presso l'Università di Rabat e Presidente della Associazione marocchina di Filosofia afferma come «tutti e tre gli stati sono stati sottoposti al dominio coloniale francese: l'Algeria fu occupata nel 1830, la Tunisia nel 1881 e il Marocco nel 1912. Dopo la seconda guerra mondiale in tutti questi paesi si determinarono movimenti per l'indipendenza che i tre Stati sono riusciti a raggiungere tra il 1956 e 1962». In un suo saggio, Sabila ha saputo ben descrivere il gap generazionale nei tre stati del Maghreb, mettendo bene in luce la condizione dei giovani, del tutto lontani dai dogmi politici terzomondisti della generazione dei loro genitori. In tutti e tre i nuovi stati indipendenti appena all'indomani della conquistata indipendenza si ebbero feroci lotte per il potere. In Algeria, l'Esercito di Liberazione Nazionale soppresse tutti i partiti che erano invece presenti all'epoca del governo algerino di transizione. In Tunisia, Bourguiba mise da parte tutti gli altri leader dei tempi della lotta anticoloniale. Nel 1956, anno della sua indipendenza, spiega Sabila, il Marocco aveva una popolazione di dieci milioni. Oggi, questa cifra ammonta a oltre 30 milioni dove il 60 per cento sono giovani. La situazione è simile negli altri stati del Nordafrica dove la delusione dei giovani continua a crescere anche grazie all'effetto domino delle rivolte.
Il potere nei tre paesi ha elaborato varie strategie per combattere la protesta sociale: il regime marocchino ha sviluppato un proprio sistema di difesa politica che enfatizzando la legittimità religiosa della monarchia è finora riuscito a contenere le forze di opposizione con il pugno di ferro, tentando allo stesso tempo di mantenere l'élite politica e culturale al proprio fianco, innestando nell'immaginario sia sentimenti nazionalistici (promossi attraverso il cosiddetto "completamento dell'unità territoriale" ossia l'annessione dell'ex Sahara occidentale spagnolo), sia nell'esaltazione "populista" di riforme introdotte dal giovane re. In Algeria, la legittimità è ancora basata sulla leggendaria lotta liberazione anti-coloniale (ricordiamo il film La battaglia di Algeri di Pontecorvo), anche se quest'eredità ideologica ha perso molta della sua forza di mobilitazione. La generazione più giovane tende a considerare questo più come una favola degli anziani ma che ha ben poco a che vedere con la realtà. Inoltre la sensazione generale è che le entrate provenienti dalle risorse naturali dell'Algeria - lo Stato del Nordafrica con le maggiori riserve di petrolio e gas - siano sperperate e ingiustamente distribuite. In Algeria, quando il Fronte Islamico di Salvezza (Fis) venne dato per vincente nelle elezioni del 1992, ci fu l'annullamento dello scrutinio a cui seguirono molti anni di guerra civile. Molti giovani ora sono completamente disillusi e non credono che il regime algerino goda di sufficiente legittimità politica. Scrive in conclusione Mohamed Sabila:«Questa continua perdita di legittimità, l'iniqua distribuzione della ricchezza nella società, così come la mancanza di separazione dei poteri e la garanzia dei diritti fondamentali della persona si sono rivelati ostacoli strutturali ad un processo che stabilizzi una maggiore democrazia in tutti e tre i paesi del Maghreb. È quindi altamente improbabile che un po' di balsamo versato sulle ferite profonde della società possa tradursi in una vera cura». In una intervista a Giancarlo Bosetti della rivista Reset, Saad Eddin Ibrahim, professore di Sociologia presso la famosa Università Americana del Cairo e fondatore del Centro Ibn Khaldun Studi per lo Sviluppo e l'Organizzazione araba per i diritti umani, ha spiegato come «gli avvenimenti a cui stiamo assistendo dimostrano l'infondatezza della teoria della eccezione araba-islamica ovvero la teoria che i musulmani siano in qualche modo diversi dal resto del mondo e per cui questo sarebbe il motivo perché non avevano la democrazia. Questa cosiddetta teoria dell'eccezione islamica è sbagliata, non solo per le piazze tunisine e egiziane ma anche perché il 75 per cento dei musulmani sono in realtà governati da governi democraticamente eletti, Indonesia, Malaysia, Bangladesh, Albania, senza dimenticare l'India con i suoi 165 milioni di musulmani». Continua Saad Eddin Ibrahim: «Prendiamo come esempio l'Egitto. Ha creato il suo primo parlamento nel 1866, circa 4 anni prima dell'unificazione italiana e prima che Roma diventasse la capitale italiana. L'Egitto è stata formalmente una democrazia per quasi 100 anni fino alla Rivoluzione del 1952. È stato con Nasser che terminò l'epoca non solo in Egitto e nel mondo arabo della liberal-democrazia. Io sostengo che la causa di questa fine sia stato il conflitto con Israele, nel senso che la pesante e sorprendente sconfitta degli eserciti arabi ha causato la ricerca di un capro espiatorio: gli apparati militari pur rendendosi conto che c'erano molte ragioni per la debacle, hanno preferito addossare la "colpa" ai loro governi eletti liberamente. In effetti dopo solo tre mesi dalla firma del trattato di armistizio con Israele, ci fu il primo colpo di stato in Siria, seguiti da quelli in Egitto e in Iraq». Molti studiosi dicono che l'ulteriore sconfitta del 1967 ha determinato la nascita del radicalismo politico islamista ma adesso a 30 anni dalla presa del potere di Khomeini in Iran, molte promesse si sono rivelate illusorie: «In Tunisia, come in Egitto, Marocco e Algeria i partiti islamisti non sono la maggioranza, anche se come militanti sono ancora ben organizzati. Questo è il motivo per cui sembrano essere il gruppo prevalente. Nella migliore delle ipotesi - spiega Saad Eddin Ibrahim - gli islamisti potrebbero ottenere al massimo il 20 per cento dei voti in ogni elezione parlamentare non di più». Questi risultati «provengono da ricerche e indagini che abbiamo fatto nel nostro centro, l'Ibn Khaldun Center for Development Studies, nel corso degli ultimi 30 anni. Tuttavia, nella nostra parte del mondo, i dittatori hanno usato gli islamisti come spauracchi per spaventare, non solo l'Occidente, ma anche la classe media locale. Certo occorre che i lettori occidentali tengano presente che nell'immaginario di ogni musulmano specie se arabo ci sarà sempre qualcosa. Il primo è la dimensione di far parte di un miliardo e mezzo di persone: ogni persona araba che sia irachena o marocchina sente di avere moltissime cose in comune: intanto tutti guardano Al-Jazeera, ascoltano canzoni egiziane e libanesi, guardano i film egiziani. Se un paese arabo sta giocando una partita contro un paese non arabo, tutti fanno il tifo per la squadra araba. Ma se è il Marocco a giocare a calcio con l'Algeria, allora si può vedere quanto sia invece profonda la lealtà al proprio paese». Il secondo è che i cambiamenti che scuotono i paesi arabi hanno anche un modello nella attuale Turchia. L'immagine della Turchia è cambiata in pochissimo tempo, il governo turco guidato da un partito d' ispirazione islamica che crede nella democrazia e nel rispetto dei diritti umani è studiato e ammirato dalle nuove elites emergenti (si può fare un'analogia con i partiti democratici-cristiani che seppero ricostruire l'Europa nel dopoguerra, Italia compresa). Davanti a questo l'Unione europea deve favorire la promozione della democrazia comprendendo che questa e la pace sono le due facce della stessa medaglia: per questo dovrebbe essere pronta a dare un trattamento di favore a un paese disposto ad andare avanti nel processo di democrazia vera.
Omar Camiletti
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