Dal Secolo d'Italia del 23 febbraio 2011
«Che cosa ne facciamo di noi stessi?». A porsi e a porci la più insidiosa delle domande è il “nostro” Federico Zamboni nella prefazione a Fuorifuoco (Edizioni GiveMeAChance, pp. 160, € 12,50), la raccolta di racconti che Domenico Paris ha appena mandato in libreria.
«Se non sopportate questa domanda e preferite vivere da sciocchi nel mondo degli sciocchi – ci incalza Zamboni – chiudete subito questo libro e dimenticatevi il più rapidamente possibile di averlo anche solo sfiorato. Non dovrebbe essere un grande sforzo. Ci siete abituati, a scansare tutto quello che vi dà da pensare». Svicolare, affidarsi al caso, aspettare chissà cosa, dissipare le qualità finché non si affievoliscono e si trasformano in rimpianto e frustrazione. E infine rinunciare a lottare. Soprattutto rinunciare a concentrarci su noi stessi, subire la vita invece di viverla, anche quando siamo convinti di avere ancora buone carte da giocare. «Perché, si capisce – infierisce Zamboni – siamo troppo indaffarati».
È quello che fanno (o meglio non fanno) i personaggi – definirli protagonisti sarebbe ingannevole – messi in scena da questo giovane autore avezzanese della classe ’77, che si è fatto già conoscere e apprezzare con la sua prima raccolta, La via difficile (Edizioni Tracce, 2003). «Le loro vicende – scrive Zamboni – sono quasi sempre allo stadio terminale di un lungo processo di avvicinamento al proprio epilogo. Il messaggio è inequivocabile: non sono incidenti di percorso. Quello che accade è esattamente quello che si meritano». Se è difficile essere giudici di se stessi, lo è un po’ meno specchiarsi negli altri e persino più facile è misurarsi con uomini e donne immaginari per poi aggiustare il tiro nella propria, di vita.
Domenico Paris posa il suo “obiettivo fotografico” su queste vite fuori fuoco e lo fa con la scrittura asciutta del cronista – si occupa di sport per le pagine romane de Il Tempo – e il distacco, neutro ma non privo di pathos, di chi non vuole giudicare. Non chiede né assoluzioni né condanne per i suoi poveri antieroi alle prese con desolanti vicende quotidiane. Nessun ammiccamento e nessuna attenuante generica. Non esulta né si rammarica per le loro sconfitte. Si limita a evidenziare le contraddizioni e l’illusorietà di una società regolata dal consumo e rassegnata all’incomunicabilità, ma senza che questo finisca per diventare un comodo alibi o una magra consolazione: la responsabilità delle scelte – o delle non scelte – rimane individuale.
I suoi personaggi ricordano da vicino quelli di Raymond Carver, il maestro per eccellenza delle short story scomparso nel 1988 a soli cinquant’anni, il cantore dei perdenti, di coloro che cercano solamente di fare il loro meglio e inevitabilmente finiscono ko. È quello che capita nel primo racconto a Raniero, rampollo della Romabene, una vita spesa, anzi sprecata, tra feste, cocaina e sesso facile. Tanto facile da risultargli fatale. Inutile cercare riparo: il professor Biblia, superata la depressione per non essere riuscito a comprare la prima copia rarissima di Viaggio al termine della notte di Céline, cerca sollievo nel collezionare libri, ossessivamente, per decine di migliaia. Ma saranno proprio i libri a tradirlo. Poi c’è Andrea, professione centravanti di calcio, due anni di serie A e un futuro luminoso che si inabissa in un infortunio dietro l’altro trascinandolo in una notte che più buia non ce n’è, dove affetti e sentimenti non hanno più cittadinanza. Destino analogo toccherà a Jason, la grande speranza del pugilato. Anche lui andrà al tappeto una volta di troppo. Non si rialzerà. Difficile farlo, del resto, se ci sei finito non per uppercut ma con due pistolettate nell’addome. Una vita grigia è anche quella dell’uomo – senza neanche un nome, tanto è anonimo – che arriva a pensare che i tasti del telecomando si autopigiassero da soli. Per lui un matrimonio fallito e nessun «figlio-salvabaracca». Il geometra Felice ha sì un nome, ma anche il mutuo e il leasing da pagare, un figlio da far studiare, uno scoperto in banca e, per non farsi mancare nulla, un debito col cognato e una moglie delusa. Non rimane che tentare un pokerino. E vi lasciamo immaginare come vada a finire, perché dagli errori difficilmente si impara.
Aveva ragione Pier Vittorio Tondelli, quando in Altri libertini scriveva: «Ci si dimentica piano piano di tutto perché la vita è davvero vita, cioè una porcheria dietro l’altra». Sta a noi, come suggerisce Zamboni, tirarci fuori dalle sabbie mobili della quotidianità e riprendere in mano il timone della nostra esistenza. Parafrasando Vasco Rossi: «Trovare un senso a questa vita anche se questa vita un senso non ce l'ha».
Roberto Alfatti Appetiti
Nessun commento:
Posta un commento