Dal Secolo d'Italia di martedì 1 febbraio 20100
La notizia è di queste ore: il prossimo 2 marzo Rosa di fuoco di Emilio Marrese (Pendragon 2010, pp. 357, € 15), bruciate in pochi mesi le prime tre ristampe, verrà lanciato anche sul mercato iberico: sia in lingua castigliana che catalana.
E non poteva essere diversamente, visto che il romanzo – «di sangue, pallone e piroscafi», come suggerisce il sottotitolo – narra proprio le vicende (per quanto romanzate) della squadra di calcio simbolo per eccellenza dell’identità catalana: i blaugrana, che nel ’37 organizzarono una tournée in Messico per allontanarsi dalla guerra civile che infuriava in città.
E non poteva essere diversamente, visto che il romanzo – «di sangue, pallone e piroscafi», come suggerisce il sottotitolo – narra proprio le vicende (per quanto romanzate) della squadra di calcio simbolo per eccellenza dell’identità catalana: i blaugrana, che nel ’37 organizzarono una tournée in Messico per allontanarsi dalla guerra civile che infuriava in città.
Rosa di fuoco, ovviamente, è Barcellona. Rosa de foc, in catalano, com’era chiamata dagli anarchici con una definizione coniata, pare, nel 1783, da un Friedrich Engels estasiato da quella irrequieta “vivacità”.
«Di quella formazione – ci avverte la frase del giornalista e scrittore messicano Juan Villoro, presa in prestito dall’autore quale epigrafe del testo – rimasero solo un massaggiatore e una spugna. Con quelle armi il Barcellona rifondò la sua storia». Perché i calciatori preferirono non tornare in patria e sistemarsi altrove, chi per un periodo e chi definitivamente. Poco coraggiosamente, forse. «I calciatori sono eroi degli stadi ma ragazzi, in fondo», scrive Marrese, giornalista di Repubblica con una lunga esperienza di inviato sportivo, all’esordio come narratore.
Attorno a questo episodio accaduto veramente, eppure poco conosciuto in Italia, si articolano le “indagini”, queste sì fantasiose, di Pablo, giovane messicano che nel 2008 si mette alla ricerca delle sue origini. Uno di quei calciatori – «ciurma di pirati ballerini» – potrebbe, senza averlo mai saputo, aver concepito sua madre (ed essere quindi suo nonno) in una notte di passione messicana. La narrazione, avvincente, procede per flasback in cui attualità e passato, realtà e fantasia, danno vita a un avvincente intreccio di generi. E di protagonisti: calciatori in cerca di una via di fuga, spie franchiste e rivoluzionari da una parte; figli illegittimi novelli Chatwin, dall’altra. Con tanto di suspance noir: davvero Pep Iborra, portiere del Barcellona degli anni Trenta, ha assassinato la bella Margarida trovata morta in «un buco di appartamentino di quei vicoletti oscurati dai panni stesi al sole, come vele gonfie di una miseria che non salpa mai»?
Alla Barcellona allegra e accogliente dei nostri tempi si alterna, di capitolo in capitolo, quella dilaniata dalla guerriglia interna al fronte repubblicano dei giorni successivi al colpo di Stato. Se i nacionales di Franco avevano avuto abbastanza rapidamente la meglio nelle città di Siviglia, Pamplona, La Coruna, Cadice, Jerez, Cordova, Saragozza, per prendere Barcellona avrebbero potuto aspettare che i repubblicani si ammazzassero tra loro. «Dei franchisti non ce ne fregava un cazzo – dice Paco, capo degli anarchici – era il momento di mandare affanculo tutto quello che rappresentava la borghesia socialista, il potere, i padroni, il clero e quei finti comunisti servi di Stalin che ci governavano». Tutti gli edifici erano stati occupati e spartiti tra comunisti e anarchici, tutte le auto sequestrate, le chiese saccheggiate e distrutte. La guerra civile, scoppiata un anno prima, aveva esasperato ulteriormente quell’anima «cruda, eretica e violenta della città».
L’incipit del romanzo ce ne offre un’evocativa fotografia del maggio 1937: «Erano giorni in cui la morte doveva inventarsi qualcosa per essere notata. La si incontrava così spesso, sulle strade di Barcellona, che ormai faceva parte del panorama come i platani, i chioschi o i lampioni di quell’architetto disturbato». Bastava infilarsi nel vicolo sbagliato, controllato da una milizia diversa rispetto a tutto il resto del quartiere, ed era finita. «Non c’erano confini netti tra le diverse aree, né ideologici, né topografici. Da palazzo a palazzo la gestione cambiava». Il primo a rimetterci le penne – nel romanzo, ma si tratta di una storia vera – è Josep Sunyol, deputato della sinistra moderata ma soprattutto presidente del Barcellona, carica istituzionale, non soltanto sportiva, più importante dell’intera Catalogna. Finito in un avamposto franchista, viene fucilato senza tanti complimenti. Per mantenere il controllo del club ed evitare che venga confiscato – anzi collettivizzato, dai sindacati, al pari di tutte le maggiori aziende e attività cittadine – si forma il Comitato dei lavoratori del Barcellona. Col campionato fermo, tuttavia, non rimane che cercare una via d’uscita onorevole come quella offerta da una tournèe all’estero, salvando i giocatori dalla più che probabile chiamata in armi e nello stesso tempo evitando la bancarotta.
Anni dopo – ma quest’epilogo è richiamato solo nell’appendice finale al romanzo – le autorità sportive franchiste ritennero che la tournée avesse avuto finalità politiche e squalificarono per due anni tutti i partecipanti. Del resto – come racconta Marrese – è un fatto che usassero il campo de Les Corts per nascondere gli esiliati politici, perseguitati sia dai franchisti che dagli anarchici, per poi farli scappare di notte dal porto. Il Barcellona, che aveva vinto il campionato catalano del ’38-’39 (tre settimane prima che la città si arrendesse a Franco, il 26 gennaio dello stesso anno), dovette aspettare il ’45 per vincerne un altro, quando ad allenarla Franco stesso chiamò Josep Samitier, l’ex attaccante catalano che i repubblicani a suo tempo avevano arrestato per simpatie franchiste – analoga sorte toccò a Ricardo Zamora, portiere leggendario – e che il Caudillo aveva richiamato in patria per farne degli eroi nazionali. Che oggi hanno i nomi di Messi e Guardiola.
Roberto Alfatti Appetiti
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