Dal Secolo d'Italia di martedì 1 marzo 2011
Il gioco è bello quando è corto, che è cosa diversa dal dire che il gioco è bello quando dura poco. Perché l’amore per il calcio dura tutta la vita. «Essere tifosi – come ha scritto Darwin Pastorin – significa restare fanciulli». Conservare intatto quel colpo di fulmine. «M’innamorai del calcio come mi sarei innamorato delle donne: improvvisamente e acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé».
Parole di Nick Hornby, la cui “febbre” per il calcio ha ispirato alcune delle più belle pagine di letteratura sportiva di sempre. Altrettanta passione ha accompagnato Gian Luca Diamanti, giornalista e scrittore ternano, nella scrittura di Il gioco è bello quando è corto: il racconto, come spiega il sottotitolo, de L’avventura in serie A della Ternana di Viciani nel 1972 (Intermedia edizioni, pp. 218, € 12). Il libro è dedicato a «chi crede ancora che ci sia bisogno di un po’ di passione: nello sport, nella vita e nell’immaginare il futuro della propria città». E al padre Manlio, che lo portò, quando aveva solo sei anni, in quel tempio laico dove la Manchester italiana celebrava il rito domenicale che sintetizzava le due anime della città: calcio e fabbrica. «Dire che si giocava a pallone all’ombra delle ciminiere non era retorica – spiega Diamanti – perché lo stadio stava dentro la grande area dell’acciaieria ed era stato costruito coi soldi degli operai nel 1925, quando la Società Terni anticipò i fondi necessari alla realizzazione dell’impianto e poi li trattenne sulle buste paga degli iscritti all’Unione Sportiva Terni». Parliamo dell’impianto di viale Brin, demolito qualche anno fa per fare spazio a un anonimo parcheggio. Destino che accomuna tanti altri stadi abbandonati persino dalle ruspe e seppelliti dai detriti. «A evocare i ricordi – sottolinea l’autore con una punta di malinconia – sono rimasti solo i loro nomi: il Grezar di Trieste, il Filadelfia di Torino, il Collana di Napoli al Vomero, il Moretti di Udine, l’Asmicora di Cagliari e il Santa Giuliana di Perugia».
Il ricordo di quella prima volta è ancora vivido nelle sue parole. 17 settembre del ’67, partita d’esordio di una stagione che si dimostrò trionfale, tanto da riportare la Ternana, dopo più di vent’anni, dalla C alla B. «Capii subito che sarei diventato un tifoso. Mi piaceva l’eccitazione, l’aria di festa, il poter fare cose che a casa o scuola non si potevano fare, come gridare, ridere insieme ad adulti che sembravano bambini, sentire le parolacce e provare a ripeterle. Più tardi capii che era un’esperienza libertaria e comunitaria al tempo stesso. Cominciai anche io a urlare quando vidi le magliette rossoverdi che entravano in campo e non ho smesso di farlo per i successivi quarant’anni». Rosso e verde. «Colori forti, coraggiosi. Troppo azzardati nell’abbigliamento, dicevano quelli che ci consideravano dei parvenu. Poco raffinati, come il vestito dell’operaio invitato alla cena di gala dei padroni, ma il verde è il colore del drago che sta nello stemma di Terni e il rosso è il coloro del fuoco che esce dalla sua bocca. E pazienza se, nelle vecchie foto dei giornali in bianco e nero, sfumavano in tonalità di grigio indistinguibili. Peccato solo l’essere stati famosi prima della diffusione dei Tv color», scrive Diamanti.
Se tutte le università venivano occupate e l’uomo si apprestava ad andare sulla luna, anche la Ternana era chiamata a completare la sua rivoluzione. «In fondo – scrive – quei primi anni Sessanta erano gli anni dei sogni, non solo per i ragazzini. Bastava guardarsi un po’ intorno, ascoltare le canzoni, annusare l’aria, per capire e per sperare che qualcosa potesse ancora succedere. In meglio, non solo per le nostre vite, ma per la nostra città che, dopo aver timidamente rialzato la testa, cercava di vedere se c’era un posto migliore per lei».
Lei è Terni, la città operaia per eccellenza che intravede nel calcio una chance di riscatto sociale. «Non conta niente, c’ha l’acciaieria e non l’università – scriveva Lanfranco Ponziani, indimenticato giornalista – ma la domenica noi c’abbiamo qualcosa». Al di là della retorica del calcio proletario, però, c’è sempre un “eroe” a suonare la carica ed ha il volto e le idee del giovane allenatore che già l’aveva portata in B: Corrado Viciani. Suo, il primo grande esperimento di calcio collettivo: il gregariato elevato a sistema. La teoria del gioco corto che oggi, a distanza di quarant’anni, rimane la più moderna idea di calcio. Geniale nella sua semplicità: «Il miglior giocatore è quello che passa la palla di prima e che la passa al compagno più vicino». Traduzione: non ho campioni a disposizione? E io faccio in modo che facciano cose semplici. Banditi esibizionismo e lanci lunghi. Si avanza e si rientra in gruppo. Così Viciani compierà il nuovo miracolo, facendo della città dell’acciaio la più colorata d’Italia.
«La follia collettiva che sconvolse una città provinciale grigia e fumosa – scrive Diamanti – le restituì il verde che c’era prima della fabbrica, insieme al rosso che in realtà non era quasi mai scomparso dalle bandiere nei cortei degli operai, in un’atmosfera di caciara collettiva in cui per una volta si potevano sfottere i perugini. Perché l’Umbria in serie A ce l’avevamo portata noi, poveri ignoranti di Terni, mica loro con quel senso di superiorità che ce li faceva sempre considerare come i cugini antipatici». Una bella favola. Senza lieto fine. Come tutte le favole vere. Che Diamanti, ternano indomito, ci restituisce con deliziosa capacità fabulatoria.
Roberto Alfatti Appetiti
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