domenica 27 marzo 2011

L'altra tv di Renzo Arbore: 35 anni fa l'altra domenica...

Dal Secolo d'Italia del 27 marzo 2011
Trentacinque anni fa, giorno più giorno meno. Era il 2 marzo del 1976, quando su Rai 2 andò in onda per la prima volta L'altra domenica, il programma diretto da Salvatore Baldazzi ma ideato e condotto da Renzo Arbore, cantautore, compositore, showman, attore, ma soprattutto progenitore assoluto del varietà applicato al piccolo schermo e geniale scopritore di talenti. Una data da cerchiare sul calendario, forse non abbastanza “storica” da proporre come festa nazionale, ma che segnò senza dubbio una rivoluzione nel modo di fare televisione.
 Tutt’altro genere rispetto a Domenica in, il contenitore “ideale” per famiglie, il format tranquillo e rassicurante che Rai 1 iniziò a proporre dall’ottobre dello stesso anno con la conduzione di Corrado. La riforma televisiva era stata varata pochi mesi prima e l’informazione giornalista s’era fatta bipolare: così come Tg1 e Tg2 iniziavano a dividersi i telespettatori, anche sul fronte dell’intrattenimento popolare si avvertiva l’esigenza di dare spazio a quel vento libertario che dalle radio libere già aveva iniziato a soffiare nei tinelli italiani. Minando la pace domestica. Perché allora in casa c’era ancora una e una sola televisione. Difficile trovare una mediazione tra il pubblico “conservatore” che nei secoli rimarrà fedele a Domenica In e quello giovane e colto – in una parola: più esigente – dei baby boomers, di coloro che avevano fatto il Sessantotto e – per dirla con Lidia Ravera – erano stati «protagonisti della propria crescita: non subiscono il destino e per forza, impegno e rigore sono un modello per le generazioni future». Si avvertiva l’esigenza di sperimentare nuove strade, dare vita a un programma che fosse in grado di solleticarne le aspettative. Fu così che fece irruzione in tv, grazie alla creatività dirompente di Renzo Arbore, l’altra Italia, quella che non chiedeva altro che partecipare, foss’anche solo attraverso una telefonata da casa. Chi voleva concorrere ai primi quiz telefonici e vincere premi poco più che simbolici, neanche lontanamente paragonabili ai “milionari” attuali, doveva solo comporre un numero telefonico. Indovina indovinello dove sta la caramello?
Sì, perché da quella domenica la tv fece il primo passo per diventare “interattiva”: il pubblico di casa poteva irrompere in diretta, esattamente com’era stato abituato in radio. Una delle principali fonti d’ispirazione de L’Altra domenica, infatti, è proprio l’innovativa esperienza radiofonica di Alto Gradimento (condotta da Arbore con Gianni Boncompagni). Una trasmissione esilarante quanto irriverente che aveva già realizzato indici di ascolto impensabili per la radio dell’epoca, creando tormentoni comici che hanno popolato l’immaginario collettivo di quegli anni. Gags surreali e strampalate rese celebri da quelle imperdibili puntate radiofoniche in cui alla messa in onda di musica internazionale si alternava una sgangherata galleria di personaggi, interpretati per lo più da Giorgio Bracardi e Mario Marenco.
Ad affiancare l’inesauribile verve di Renzo Arbore, nel cast di L’altra domenica, venne (ri)chiamato proprio Mario Marenco, conterraneo di Arbore – come lui foggiano – e papà di una comicità consapevolmente demenziale. Senza di lui, sarebbe difficile anche solo immaginare un programma come Zelig. Architetto e designer di fama, oltre che umorista, vestiva i panni dello svagato cronista parlamentare Ramengo. Anzi, di Mister Ramengo, con le sue cronache grottesche e ricche di paradossi e con il richiamo “Carmine!” urlato di continuo. Intendiamoci: la sua comicità surreale era solo apparentemente stupida: Federico Fellini, non certo l’ultimo arrivato, lo definì “troppo intelligente per essere un vero attore”. Accanto ad Arbore, padrone della scena e gran burattinaio, il compianto Maurizio Barendson, già coautore con Paolo Valenti di 90° minuto, al quale vennero affidate le notizie sportive. Attorno a loro, partecipavano al programma personaggi vocati all’improvvisazione: Andy Luotto, nei panni di uno strano cugino italoamericano, e Roberto Benigni che, nelle inconsuete vesti di critico cinematografico, fece i suoi primi passi verso la fama mondiale. E ancora: l’appena ventenne Milly Carlucci, il duo di uomini-orchestra Otto e Barnelli, Fabrizio Zampa e Michael Pergolani. Gli inviati: Isabella Rossellini, in collegamento da New York, Francoise Riviere da Parigi, Michel Pergolani da Londra e Silvia Annichiarico da Milano.
Un cast talmente strepitoso da diventare protagonista nel film Il pap’occhio, pellicola che nel 1980 segnò l’esordio di Arbore alla regia. Girato per intero nella reggia di Caserta, venne sequestrato (per un certo periodo) per vilipendo alla religione cattolica: troppo irriverente nei confronti di Papa Giovanni Paolo II, raccontato come insolitamente patito della modernità. Tanto che, preoccupato per l’avanzata dei buddisti e per il diffondersi delle droghe tra i giovani delle e vedendo un famoso spot pubblicitario della birra di cui Arbore è testimonial, si convince a ingaggiarlo come conduttore della televisione di Stato Vaticana. E il conduttore, nei panni di se stesso, per lanciare la nuova evangelizzazione conierà lo slogan “Fedeli di tutto il mondo, unitevi!”, accompagnato dal suono di una originale Internazionale in adattamento cattolico. Uno sberleffo alle due grandi e potenti chiese di quegli anni: quelle cattolica e quella comunista. Una rivalsa a nome di quelle generazioni degli anni Cinquanta che, per dirla con Ennio Flaiano, «l'hanno preso in culo due volte. I preti da una parte, i comunisti dall'altra».
Nel film – recentemente restaurato e distribuito in Dvd – come nelle trasmissioni, non c’è copione che tenga. La professionalità di Renzo Arbore e dei suoi stravaganti collaboratori faceva sì che gli eventuali errori commessi durante le riprese diventassero d’incanto parte integrante e caratterizzante dello sketch.
«Non abbiamo mai tenuto in considerazione la forma, forse perché proveniamo dalla radio – ha spiegato Arbore tempo fa – mentre abbiamo sempre privilegiato i contenuti, l’essenzialità, l’audio, piuttosto che il taglio dell’immagine. Questo ci permetteva di recuperare eventuali errori come elementi di spettacolo. Ad esempio, durante la registrazione del numero di Benigni, io controllavo tutto sul monitor. Se per caso Benigni usciva fuori campo, lo sgridavo denunciando l'errore ma recuperandolo come spettacolo. Insomma sembrava fatto apposta».
Naturalmente non mancano i giornalisti, giovani ma promettenti – Gianni Minà, Fabrizio Zampa, Fiorella Gentile, Irene Bignardi e Patrizia Schisa – e neanche i cartoni animati, firmati “GASAD” (la cui sigla era essa stessa tutto un programma: gruppi a Sinistra dell’Altra Domenica, la parodia di un gruppo terroristico con il dichiarato scopo di “sabotare” la trasmissione). A realizzarli due artisti del calibro di Guido Manuli, collaboratore storico del grande Bruno Bozzetto, e Maurizio Nichetti, che anni dopo si misurerà con successo con il cinema.
Strepitosa la sigla finale: Fatti più in là, interpretata da Tito Le Duc, Mauro Bronchi e Neil Hansen, meglio noti come le Sorelle Bandiera. Un motivetto, il loro, che oggi potrebbe suonare semplicemente buffo ma che, in un’epoca in cui l’omosessualità era ancora un tabù, rappresentò un vero e proprio trauma per il comune senso del pudore.
L’informazione viene sapientemente mescolata con la musica – al modo di Arbore: di buon livello, ma rivolta al pubblico e senza ammiccare necessariamente agli addetti ai lavori – e le numerose rubriche alternative restituiscono un clima scanzonato quanto immediato che conquista da subito il pubblico. Al termine della messa in onda de L’altra domenica, Rai 2 perdeva oltre un milione di spettatori, malgrado l’appeal di Diretta sport in epoca pre-Sky.
«Facemmo davvero di tutto – ha ricordato recentemente Arbore – dagli asini in studio (si chiamava “Andonio”) al balletto muto (con Andy Luotto), dal primo umorismo con travestiti (erano le sorelle Bandiera e, allora, era rivoluzionario) alla prima pernacchia, dalla prima parolaccia al primo capezzolo visto in televisione. Tutto l’impianto era nuovo e forse potrebbe essere ancora ripreso».
Tuttavia, l’esperienza si chiuse nel luglio 1979, con la vittoria definitiva del “domenicainismo” – com’ebbe a definirlo Franca Valeri – giunto con quella del 2010/2011, per l’appunto, alla trentacinquesima edizione. Un “modello” efficace quanto contagioso che, dal contenitore domenicale, s’è spalmato su tutto il palinsesto, non solo della Rai. Perdendo di genuinità e diventando irrimediabilmente una fabbrica di pubblicità. Una ricetta ormai collaudata e adattabile a ogni orario con leggeri modifiche delle dosi: una spruzzata (minima) di informazione, tanta cronaca gettata alla rinfusa e accompagnata da una morbosa attenzione per il più pruriginoso dei dettagli, il tutto affidato agli illuminanti commenti di ospiti più o meno urlanti, dall’intellettuale postmoderno agli ex del grande fratello o delle altre decine di reality e il gioco è fatto. Se poi ci scappa la rissa, tanto meglio.
«Io, per dirlo elegantemente – ha detto in un’intervista Arbore – la chiamo la televisione degli espedienti, poi c’è un termine romano, che uso sulla stampa ma non in televisione. Mi ricordo che mio padre, quando doveva parlare male di qualcuno, diceva “Quello vive di espedienti”, cioè trucchetti, furbizie, quelle alchimie macchinose usate in televisione per strappare una manciata di telespettatori in più. Adesso molta televisione vive di espedienti, che qualche volta pagano, in termini di ascolto. Ma l'ascolto non è tutto secondo me». Vallo a spiegare agli sponsor, che ironia e intelligenza sono più importanti una tetta di plastica sventolata a favore di telecamera.
Arbore, da parte sua, ha tirato dritto, ben contento di far parte di una nicchia. Con Quelli della notte, trasmissione cult degli anni Ottanta s’è divertito a prendere in giro la moda dilagante dei salotti televisivi. Nel decennio successivo, con Indietro tutta, ha ridicolizzato la deriva cialtronesca della tv commerciale, lanciando la finta pubblicità del “cacao meravigliao”. Tanto credibile che c’è stato persino chi s’è precipitato a cercarlo nelle torrefazioni. Non solo: con le "ragazze coccodè" Arbore ha anticipato il malvezzo di usare i corpi femminili come coreografia inervte ponendo le basi di quell'uso delle veline che tante polemiche suscita ancora oggi. Con la sua tv irriverente, dunque, ha lanciato segnali culturali importanti, che avrebbero meritato una riflessione più attenta, visto che abbiamo assistito poi alla commercializzazione del servizio pubblico, alla dittatura dell'audience, alla tv urlata e caciarona, alla volgarità, all'esibizionismo delle varie "pupe". Aveva previsto tutto con le sue parodie. E va detto che a volte la finzione è meno orribile della realtà.
Roberto Alfatti Appetiti

1 commento:

giovanni fonghini ha detto...

Ho adorato Arbore e la sua geniale ironia sin dai tempi dell'adolescenza, quando seguivo alla radio la mitica trasmissione Alto Gradimento, condotta in coppia con Gianni Boncompagni. Una vera e propria innovazione, che avrebbe fatto scuola. Lo stesso avvenne in tv con L'Altra Domenica. Le sorelle Bandiera, la Milly Carlucci esordiente, Benigni che si cimentava, a modo suo, con la critica cinematografica, etc., etc., etc. Era una ventata di novità che faceva storcere il naso a molti adulti e, al contrario, mandare in visibilio i più giovani. Nel decennio successivo, gli anni '80, tu ricordi poi altre due trasmissioni tv "cult": Quelli della Notte e Indietro Tutta. Allora facevo le ore piccole davanti al video per non perderne un minuto. Adoro poi Renzo Arbore anche per un altro motivo, che ha invece a che fare con la canzone: è l'unico che è stato capace di farmi amare la canzone napoletana. Le sue reinterpretazioni di brani storici con l'Orchestra Italiana mi piacciono da morire. Tanto per citarne una soltanto, la sua versione di Voce 'e notte mi commuove sempre. Lunga vita al nostro Renzo Arbore.