domenica 6 marzo 2011

Quel richiamo della foresta come archetipo (di Gianfranco Franchi)

Articolo di Gianfranco Franchi
Dal Secolo d'Italia del 5 marzo 2011
Un ragazzo di 27 anni, che aveva vissuto tante vite con vera intensità, scrive un romanzo breve che doveva essere un racconto. È il suo secondo romanzo. È il 1903.
Questo romanzo breve diventa parte dell'immaginario collettivo, e del lessico di tutti i giorni, con una facilità sconcertante: istantaneamente. Segno che il ragazzo ha scritto attingendo a qualcosa di universale, di archetipico, di essenziale. Segno che in noi dorme tutto quel che ha raccontato. Segno che abbiamo bisogno di raccontarci questa storia, e che è stato fondamentale inventarsela. Quel ragazzo di ventisette anni si chiamava Jack London, e non aveva mai capito chi fosse suo padre. Il suo romanzo, il romanzo che doveva essere un racconto, si chiama The Call of the Wild. È la storia di un cane che non sapeva del tutto da chi venisse, proprio come Jack London.
È una grande favola iniziatica e allegorica: una lezione di vita e di stile che torna, in questi giorni, a restituirci ispirazione e rabbia in una nuova edizione, curata dal massimo esperto italiano di cose londoniane, Davide Sapienza. Il richiamo della foresta (Feltrinelli, pp. 192, € 7,00) è, nelle parole del grande londonologo lombardo, la storia del cane Buck che «deve apprendere come essere wild per sopravvivere, vivere oltre e tornare ai primordi della vita giovane. Buck non compie un ritorno a una condizione preesistente alla quale era stato strappato. Egli compie un cammino di consapevolezza: Buck diventa ciò che è». Diventa ciò che è. Per diventare ciò che è, Buck si ritrova a essere strappato dal cuore della civiltà: per essere, scrive London, «scaraventato nel cuore di tutto ciò che era primordiale». Ciò significa che Buck a un tratto non può più vivere nell'ozio borghese in cui era stato allevato: viene rapito da quella vita. E può tranquillamente dimenticarsi degli anni in cui al di là del riposo e del gioco poco restava da fare: non più potranno tornare. Ciò significa che nella vita nuova Buck non incontra né pace né riposo né pretesa di sicurezza: se non per intervalli. Tutto, intorno a lui, diventa azione, azione e confusione: Buck deve accettare leggi nuove, estranee a quelle di città. Estranee a quelle civili.
Buck deve imparare a sopravvivere in un ambiente altro, ostile. Deve imparare ad adattarsi, ad adeguarsi: se non s'adegua, muore. E adeguandosi, si ritrova a dover prendere atto che la sua natura morale finisce per frantumarsi: perché a un tratto è diventata «cosa vana, nonché di impedimento nella spietata lotta per la vita». La nuova società in cui è stato catapultato è estranea all'amore e all'amicizia e alla grazia: non conosce legge, non conosce etica, conosce soltanto lotta. Buck impara, e a un tratto s'accorge che va apprendendo senza sforzo. Perché è come se certi principi, e certe strategie, fossero sempre state con lui: nel suo sangue. Sono parte del suo corredo genetico. «E quando nelle fredde notti di quiete puntava il naso verso una stella ululando a lungo come un lupo, erano i suoi antenati, morti e sepolti, che puntavano il naso e che ululavano lungo il corso dei secoli attraverso di lui. Le sue erano le stesse inflessioni che avevano dato voce alla loro afflizione e a ciò che per loro avevano significato la quiete, il freddo e l'oscurità». Buck si ritrova a dover dimenticare la pietà. A dover accettare che l'alternativa è comandare o essere comandato. Perché nella vita primordiale la pietà non esiste più. Viene scambiata per paura. Un malinteso come questo, scrive Jack, significa morte. Tutto diventa molto semplice: s'attinge a un mandato uscito dalle profondità del tempo. A quel mandato Buck si ritrova a obbedire, scoprendosi decisamente più vecchio dei giorni che ha già vissuto, e di tutti i respiri che ha esalato. Ci possono essere momenti di gioia, sì. Per esempio, per Buck la gioia non è soltanto ritrovarsi a fianco di un essere umano come John Thornton: la gioia è poter cacciare, pescare e vagabondare senza sosta attraverso luoghi sconosciuti, per intere settimane, vicino a John. Non importa, in quel caso, patire la fame, importa vivere con intensità. Vivere, e basta. E non manca la fede nel futuro. Ma non è niente di assoluto. L'assoluto, scrive Jack London e gli crediamo, è quel richiamo che a un tratto appare, e subito sprigiona appartenenza. È come quando Buck si sente catturato da una felicità misteriosa. «A volte inseguiva il richiamo sin dentro la foresta, per cercarlo come qualcosa di tangibile, e abbaiava secondo lo stato d'animo, piano o spavaldo. Poi infilava il naso nel muschio fresco del legno o nel terreno scuro dove cresceva l'erba alta e annusava con gioia gli odori della terra grassa; oppure stava per ore accucciato come se si nascondesse dietro i tronchi. Poteva essere che restando così disteso sperasse di sorprendere il richiamo che non riusciva a capire. Ma non sapeva perché faceva tutte queste cose. Era spinto a farle, e non ci ragionava affatto».
Gianfranco Franchi

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