venerdì 18 marzo 2011

Se Philip Roth... deve difendere il povero Céline (di Agostino Carrino)

Articolo di Agostino Carrino
Dal Secolo d'Italia del 18 marzo 2011
La Francia è uno strano paese. Ospitano ex terroristi in nome della sacralità dell'asilo politico (la nota "dottrina Mitterrand"), si battono per un pover'uomo come Battisti (perfino la "première dame", a quanto si dice), ma poi diventano censori implacabili là dove la censura non dovrebbe esistere.
Nell'ambito della storia, a esempio, dove si vuole per legge cambiare il passato "coloniale" della Francia o ufficializzare come genocidio il massacro degli armeni da parte dei turchi all'epoca della prima guerra mondiale. Ma anche nel campo della filosofia, dove domina da alcuni anni un ostracismo assurdo nei confronti di Carl Schmitt, pensatore oramai classico del diritto e della politica. Uno storico della filosofia, Charles-Yves Zarka, uomo potente nell'editoria, ha decretato che Schmitt non va tradotto né letto: si tratta di un "nazista" che finge di fare il filosofo, anzi è solo il teorico e il programmatore dello sterminio degli ebrei. Quando qualche anno fa Norberto Bobbio mi diede il suo carteggio con Carl Schmitt, che pubblicati in Diritto e cultura (1995), dei colleghi parigini, suoi grandi estimatori, pensarono addirittura di dover rivedere il loro giudizio sul filosofo torinese, "contaminatosi" in un dialogo con il sulfureo giurista di Plettenberg (e non sapevano che Bobbio era stato anche in visita da Schmitt, a Berlino, nel 1938). Ma l'ostracismo del "politicamente corretto" non risparma nemmeno la letteratura, oltralpe. Qualche anno fa si cancellò dalla programmazione teatrale una pièce di Peter Handke, accusato di aver partecipato ai funerali di Milosevic.
Questo è l'anno del cinquantenario della morte di Louis-Ferdinand Destouches (1894-1961), il "medico dei poveri", in arte Céline, il grande scrittore francese della prima metà del secolo, condannato a morte per collaborazionismo con i tedeschi, autoesiliatosi e poi rientrato in patria per trascorrervi i suoi ultimi anni. Céline è autore di romanzi classici che sono oramai nella "Pléiade" di Gallimard (tre volumi), con Proust, Balzac, Voltaire, Pascal e via dicendo. Céline è probabilmente, con Proust e Simenon, il più grande scrittore francese del Novecento, uomo dotato di un talento immenso, com'è stato detto da più parti. Il suo primo romanzo, Voyage au bout de la nuit, che esplose come una bomba nella Parigi del 1932, rappresenta una tappa fondamentale nella letteratura europea del secolo scorso.
Questo non ha però impedito che l'attuale ministro della cultura, Frédéric Mitterrand - successore indegno di un grande ministro della cultura, André Malraux, invece ammiratore e protettore di Céline - cascasse in un caso di censura che deve suscitare sgomento e che rasenta il ridicolo. Come ogni anno, i francesi celebrano i loro scrittori più importanti nelle ricorrenze rispettive (nascite, morti), con un Recueil des célébrations nationales. Essi amano le loro glorie nazionali, specialmente letterarie (non a caso tanti scrittori sono sepolti al Panthéon e molti ricorderanno il fasto con cui Chirac vi accompagnò le spoglie di Dumas). Non v'è dubbio, come apparve unanimemente al comitato istituito, che Céline è una gloria letteraria dell'intera nazione, sicché il suo nome viene inserito nel libro di "celebrandi" per il 2011, pubblicato a novembre 2010 con la prefazione del ministro. Né è a dire che l'ineffabile Mitterrand il piccolo (il nipote di Mitterrand, l'unico grande presidente "di destra" che abbia avuto la Francia dopo de Gaulle…) non sapesse, al momento di firmare la prefazione, che Céline è stato l'autore di testi antisemiti, perché è cosa talmente nota che in Francia è costantemente impossibile (se non su qualche sito internet) trovare le Bagatelles pour un massacre e altri scritti del genere.
È tuttavia bastato che un certo Serge Klarsfeld, presidente della "Associazione dei giovani ebrei deportati di Francia", a gennaio scorso, nel giorno della ufficializzazione delle celebrazioni, lanciasse alti lai contro l'ignominia di una "celebrazione" di Céline, che avrebbe infamato i valori della République e dell'umanità con i suoi pamphlét antisemiti, perché Mitterrand (d'accordo con Sarkozy) facesse marcia indietro, mandando al macero le diecimila copie del volume e cancellando il nome di Céline, che pure stava accanto ad altri scrittori noti per essere più o meno anch'essi antisemiti, come Gautier. Purtroppo, la Francia è il paese delle contraddizioni e bisogna prenderla (e amarla) così com'è: dopo la guerra intellettuali come Brasillach furono fucilati, mentre responsabili di deportazioni come René Bousquet fecero carriera nell'amministrazione pubblica. Uomo di talento anche Brasillach, ma imparagonabile a Céline, forse uno degli scrittori che meglio hanno saputo mettere in scena l'assurdo della modernità, di cui "l'ebreo" era in fondo soltanto una metafora tragica (e lo dico, ovviamente, senza voler attenuare le responsabilità morali di Céline nella rappresentazione assolutamente deprecabile che ne ha fatto).
Come che sia, forse alla fine Serge Klarsfeld ha fatto un favore alla memoria di Céline, vieppiù ricordato, discusso, letto, criticato, studiato, come si deve per una autentica gloria nazionale (forse, in effetti, il termine "celebrazione" non è però quello più esatto, in queste circostanze). Così, mentre Mitterrand il piccolo mandava al rogo il volume, il Magazine littéraire di febbraio, dedicato proprio a Céline, andava a ruba nelle edicole di Parigi; e così le librerie sono piene di testi dell'autore maledetto e molti studi critici sono in programmazione da qui a giugno presso i maggiori editori francesi. Sicché, in fondo, non c'è da prendersela con Serge Klarsfeld, perché, come aveva detto già Bernanos all'uscita del Voyage, se Céline scandalizza «è perché Dio l'ha fatto per questo».
Sicché il dibattito ferve ed è un bene; in questo caso non c'è nessun Zarka che può vietare nulla. Per di più, la Francia e i francesi hanno la fortuna di essere amati dagli americani, i quali si sono spesso espressi in difesa di Céline. Già Jack Kerouac, nel 1965, scriveva sulla celebre The Paris Review che «Céline è stato uno scrittore di una intelligenza e di un fascino immensi». E proprio in queste settimane taglia la testa al toro un ottimo articolo della liberal New York Review of Books dello scorso 23 gennaio ("Uncovering Céline", di Wyatt Mason) dove tra l'altro si cita uno scrittore ebreo come Philip Roth, ammiratore incondizionato dello scrittore francese: «Per leggerlo, devo sospendere la mia coscienza di ebreo, ma lo faccio, perché l'antisemitismo non è al centro dei suoi libri, nemmeno nel romanzo Da un castello all'altro. Céline è un grande liberatore. Mi sento chiamato dalla sua parola». È il caso di dirlo: per fortuna che ci sono ancora americani ed ebrei a questo mondo...
Agostino Carrino

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