Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 20 marzo 2011
Il circo del rock. Il suo lato kitsch, se non proprio quello corrotto dall'asservimento all'industria discografica. La sua autocelebrazione indulgente ed esibizionista. Vecchie glorie sostanzialmente in disarmo, e vecchie pellacce che in un modo o nell'altro sono rimaste sulla breccia. Scambi di ruoli e di favori, in un gioco di specchi che fa rimbalzare le immagini, e le luci, e le ombre, a distanza di anni. O di decenni. Perché è così che funziona la "Rock and Roll Hall of Fame", attiva dal 1986: ogni anno viene inserito nel "Gotha" un certo numero di artisti, che abbiano pubblicato il loro primo disco non meno di 25 anni prima, e per ciascuno dei nuovi ammessi c'è una sorta di nume tutelare che lo introduce con un discorso di presentazione, la cosiddetta "induction".
Prendi, tanto per dire, l'edizione di quest'anno, che è andata in scena lunedì scorso presso il Waldorf-Astoria di New York. I premiati sono stati cinque. In ordine rigorosamente alfabetico, Alice Cooper, Neil Diamond, Dr. John, Darlene Love e Tom Waits. Personaggi diversissimi che si ritrovano sullo stesso palco come attori alla cerimonia dei Premi Oscar. Possono anche non avere nulla a che spartire sotto nessun punto di vista - e se ce l'hanno è un puro caso - eppure sono accomunati dall'appartenenza a uno stesso mondo. O piuttosto a uno stesso modo. Un modo di concepire la loro arte come qualcosa che in fin dei conti non è affatto incompatibile con quello che gli statunitensi chiamano "show-business", sui media abbreviato spesso in "showbiz". Quand'anche le loro scelte siano state ineccepibili, sul piano prettamente artistico - e persino su quello esistenziale - hanno accettato di stringere comunque un'alleanza stabile, anzi definitiva, con le grandi imprese del settore, il cui fine ultimo non è tanto la diffusione dell'arte quanto la vendita di un prodotto. Sia ben chiaro: non l'innalzamento del senso estetico, e della consapevolezza culturale, ma lo sfruttamento del gusto corrente, quale che sia.Vi piace Dylan? Vi diamo Dylan. Vi piace Kurt Cobain? Vi diamo Kurt Cobain. Vi piace Britney Spears? Benissimo. Ecco qua Britney Spears.
Sarebbe già abbastanza grave se fosse tutto qui. Un opportunismo instancabile che si adegua alle preferenze del pubblico e che fa di tutto per enfatizzarle, affinché la preferenza si trasformi in passione, e la passione si attorcigli su se stessa fino a diventare il legame esclusivo, e onnivoro, del fan. Siccome mi piace Dylan voglio tutto di Dylan, ivi incluso quello che lo stesso Dylan disprezzerebbe bollandolo, a ragione, come un feticismo idiota. Siccome mi piace Kurt Cobain compro una delle chitarre elettriche che ha sfasciato in concerto e la pago 100 mila dollari: la chitarra non è più in grado di suonare (il che significa che non è più una chitarra...) e Cobain è morto da un pezzo. Ma non importa. Cobain l'ha toccato, questo stesso oggetto, e ora lo tocco io. Cobain l'ha posseduto e ora lo possiedo io. Magia fa rima con follia. Amore con imbonitore. I rifiuti diventano reliquie. Il sacro e il profano si sovrappongono. Si confondono. Resta solo il profano. Resta solo il profitto.
E infatti non si tratta solo di assecondare un orientamento preesistente, ma di determinarlo. Da un lato in termini specifici, con campagne promozionali martellanti. Come osservava proprio Kurt Cobain, a proposito dell'eccezionale successo dell'hit per eccellenza dei suoi Nirvana, Smell Like Teen Spirit, la ripetizione crea assuefazione. Richiamare l'attenzione è una tecnica. O un trucco.
Axl Rose, il cantante dei Guns N' Roses, entra in un locale con un codazzo di guardie del corpo e tutti lo guardano. Se si comporta da superstar significa che è una superstar. Se piace a così tanta gente non è possibile che si ingannino tutti. Che cosa mi sto perdendo?
Dall'altro lato la pressione è indiretta, ma se possibile è ancora più invasiva. È quella che serve ad abituare chiunque all'idea che gli artisti debbano essere percepiti come star. E che ingigantirle al rango di icone, di modelli, di guide, sia il presupposto di una relazione eccitante e vantaggiosa. Ci si avvicina al proprio idolo e si entra nel suo cono di luce. Ci si inginocchia davanti a lui e ci si pone sotto la sua protezione. È un impegno. È uno scopo. È un riscatto dalla monotonia, dall'anonimato, dalla banalità senza scampo della vita quotidiana che si ripete sempre uguale a se stessa. E che con l'andare del tempo, semmai, è destinata a peggiorare. «Fra molti anni - scrisse Jeff Buckley sull'annuario scolastico - ripenseremo a questi giorni del liceo e picchieremo le nostre mogli». L'indomani ne parlavano tutti, insegnanti e studenti. Una frase talmente aspra. Talmente pessimista. Talmente sgradevole. Una frase da esorcizzare: per quanto era vera.
Inganni specifici, incardinati su un inganno generale. Inganni che sarebbero da perdonare solo se fossero disseminati a fin di bene, come fiabe che si raccontano ai bambini che giacciono a letto malati, per distrarli dalla loro sofferenza. O come quelle storie palesemente inventate che si raccontavano tra adulti, prima dell'avvento della televisione, per regalarsi reciprocamente un immaginario alternativo alla realtà nella quale si era sprofondati. E imprigionati. Le bugie che si innalzano a sogni. Queste bugie che non sono mai delle truffe, visto che non mirano a ottenere nessuna contropartita.
La "Rock and Roll Hall of Fame" è lì in bilico, come tanta parte del rock. Il rock che risveglia energie. Che dispensa leggende. Che afferma che il match non è ancora finito. Non è ancora perduto. Il rock che ti strizza l'occhio. Ehi, amico: ti va di bere? Ti va di affondare con me?
«Sono vecchio - spiega Tom Waits durante la cerimonia - e mi torna in mente quando a 15 anni sono entrato di soppiatto al concerto di Lightnin' Hopkins, mettendomi la colla nei capelli e disegnandomi baffi finti. Entrare nella Hall of Fame per me è come quando mi hanno dato le chiavi di El Paso: pensavo ce ne fosse una sola e invece ho scoperto che erano tante e che non aprivano un bel niente. Spero che stavolta mi diate almeno i soldi per l'indennità, ragazzi...».
Niente indennità, Tom. Nonostante i biglietti in vendita all'ingresso. Nonostante le royalty sui dischi. Nessuna indennità è possibile, per chi crede nei suoi sogni e non si limita a fare finta.
E infatti non si tratta solo di assecondare un orientamento preesistente, ma di determinarlo. Da un lato in termini specifici, con campagne promozionali martellanti. Come osservava proprio Kurt Cobain, a proposito dell'eccezionale successo dell'hit per eccellenza dei suoi Nirvana, Smell Like Teen Spirit, la ripetizione crea assuefazione. Richiamare l'attenzione è una tecnica. O un trucco.
Axl Rose, il cantante dei Guns N' Roses, entra in un locale con un codazzo di guardie del corpo e tutti lo guardano. Se si comporta da superstar significa che è una superstar. Se piace a così tanta gente non è possibile che si ingannino tutti. Che cosa mi sto perdendo?
Dall'altro lato la pressione è indiretta, ma se possibile è ancora più invasiva. È quella che serve ad abituare chiunque all'idea che gli artisti debbano essere percepiti come star. E che ingigantirle al rango di icone, di modelli, di guide, sia il presupposto di una relazione eccitante e vantaggiosa. Ci si avvicina al proprio idolo e si entra nel suo cono di luce. Ci si inginocchia davanti a lui e ci si pone sotto la sua protezione. È un impegno. È uno scopo. È un riscatto dalla monotonia, dall'anonimato, dalla banalità senza scampo della vita quotidiana che si ripete sempre uguale a se stessa. E che con l'andare del tempo, semmai, è destinata a peggiorare. «Fra molti anni - scrisse Jeff Buckley sull'annuario scolastico - ripenseremo a questi giorni del liceo e picchieremo le nostre mogli». L'indomani ne parlavano tutti, insegnanti e studenti. Una frase talmente aspra. Talmente pessimista. Talmente sgradevole. Una frase da esorcizzare: per quanto era vera.
Inganni specifici, incardinati su un inganno generale. Inganni che sarebbero da perdonare solo se fossero disseminati a fin di bene, come fiabe che si raccontano ai bambini che giacciono a letto malati, per distrarli dalla loro sofferenza. O come quelle storie palesemente inventate che si raccontavano tra adulti, prima dell'avvento della televisione, per regalarsi reciprocamente un immaginario alternativo alla realtà nella quale si era sprofondati. E imprigionati. Le bugie che si innalzano a sogni. Queste bugie che non sono mai delle truffe, visto che non mirano a ottenere nessuna contropartita.
La "Rock and Roll Hall of Fame" è lì in bilico, come tanta parte del rock. Il rock che risveglia energie. Che dispensa leggende. Che afferma che il match non è ancora finito. Non è ancora perduto. Il rock che ti strizza l'occhio. Ehi, amico: ti va di bere? Ti va di affondare con me?
«Sono vecchio - spiega Tom Waits durante la cerimonia - e mi torna in mente quando a 15 anni sono entrato di soppiatto al concerto di Lightnin' Hopkins, mettendomi la colla nei capelli e disegnandomi baffi finti. Entrare nella Hall of Fame per me è come quando mi hanno dato le chiavi di El Paso: pensavo ce ne fosse una sola e invece ho scoperto che erano tante e che non aprivano un bel niente. Spero che stavolta mi diate almeno i soldi per l'indennità, ragazzi...».
Niente indennità, Tom. Nonostante i biglietti in vendita all'ingresso. Nonostante le royalty sui dischi. Nessuna indennità è possibile, per chi crede nei suoi sogni e non si limita a fare finta.
Federico Zamboni
Nessun commento:
Posta un commento