Intervista a cura di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia del 22 marzo 2011
Anche nelle ricorrenze ufficiali si è dato il giusto risalto all’importanza dello sport come collante capace di rendere l’Italia un solo Paese da Nord a Sud. Cento anni di Guerin Sportivo, giornale fondato nel 1912, sono una storia nella storia, quella dell’Italia appunto, che celebra in questi giorni il 150° dell’Unità. Non a caso un numero speciale del GS Storie, attualmente in edicola, racconta 100 anni di “Guerino” in 100 copertine. Il periodico sportivo italiano più prestigioso, e allo stesso tempo una palestra da cui sono passati grandi scrittori come Gianni Brera, Pier Paolo Pasolini, Luciano Bianciardi e Giovanni Arpino. Abbiamo fatto un bilancio di questo centenario e altro, col direttore del GS, Matteo Marani.
Irriverenza, vena satirica e la capacità di fare dello sport e del calcio un racconto o una storia. Ci sembra che sotto la sua direzione la tradizione del “Guerino” continui.
Oltre ai nomi già citati aggiungerei anche quelli di Italo Cucci, Marino Bartoletti e altri. Per me è una fortuna potere dirigere il GS, e dire che lo spirito che lo ha sempre contraddistinto continua. Viviamo un’epoca di omologazione, di superficialità, con tutte le difficoltà che questo comporta. Non siamo in tempi di racconto storico, specie legato allo sport: proviamo a resistere. Mi fa riflettere, ad esempio, che si parli sempre di Calciopoli mentre gli stadi continuano a perdere spettatori. Come se non esistesse il problema.
Che responsabilità ha, a tale proposito, il giornalismo sportivo italiano?
Ci sono giornali che si occupano tantissimo di Calciopoli. Alcuni tifosi conoscono ormai a memoria le intercettazioni. Capisco che possa essere un’operazione appetibile da un punto di vista commerciale, magari più vendibile rispetto a un’intervista amarcord a Ricky Albertosi. Mio figlio è nato nell’anno di Calciopoli, e adesso ha quasi 5 anni. Bisogna andare avanti, voltare pagina. Noi preferiamo rivolgerci a un pubblico non fazioso, non di parte, che cerca l’approfondimento.
Siamo quindi inevitabilmente condannati alla nostalgia?
Cerco di non essere un nostalgico. Se il parametro coi tempi andati è Brera dico che non si trattava di un giornalista sportivo, ma di uno scrittore prestato al giornalismo. Non possiamo fare paragoni con Arpino, né con Bianciardi. Oggi non è peggio rispetto ad allora, anzi per certi aspetti è anche meglio: un giornalista sportivo oggi deve sapere di diritto, anche ordinario (vedi Calciopoli) deve sapere di economia, di medicina, per via degli infortuni. Diciamo che il giornalismo in generale sta vivendo la sua più grande rivoluzione dai tempi di Gutenberg, la rivoluzione globale. Se pensiamo che vent’anni fa potevano passare anche venti ore per chiudere una pagina dopo una partita e adesso, invece, abbiamo le immagini dei gol dopo pochi secondi.
Volendo ribaltare le prospettive possiamo dire che quando stavamo peggio auspicavamo tutti una rivoluzione in tal senso? Oggi, invece, si tende a guardare al passato
Intendiamoci: l’avvento delle tv era necessario, ma non in questo modo. Oggi c’è troppo calcio in televisione: sta diventando un fenomeno che socialmente rappresenta un ostacolo. Personalmente passo il week end a guardare partite, me lo impone la mia professione, ma credo siano in tanti nelle mie stesse condizioni a dovere stare lontani anche dalla famiglia. Una volta il calcio era più atteso. Adesso c’è pochissima magia: tutto è diventato più meccanico, manca la passione che è stata sostituita dalla violenza.
A sfogliare certe copie del Guerino anni’80 impressiona vedere che ogni fotocronaca delle partite aveva almeno un’immagine di curva. Erano gli anni migliori del nostro tifo: che riflessione possiamo fare oggi, in tempi di tessera del tifoso?
Il calo degli spettatori è stato fisiologico. C’è stato un abbruttimento generale dello spettacolo e l’avvento delle tv. Quello di cui si sente la mancanza è il tifo colorato. Guardavo, per esempio, la curva della Roma al derby: un tempo era esaltata cromaticamente dal giallo e dal rosso, dai fumogeni, dai bandieroni. La Curva Sud era luce. Oggi è buia, tetra, come tante altre. All’ultimo derby capitolino lo stadio era mezzo vuoto, come non era mai successo, nemmeno dopo la tragedia Paparelli. Certe misure prese contro il tifo sono sbagliate, la gente deve acquistare i biglietti giorni prima, fare file interminabili ai tornelli. Alla fine è inevitabile che tanti preferiscano guardare le partite a casa con gli amici. Per fare tornare la gente allo stadio questo deve innanzi tutto tornare un luogo comodo. Ma è chiaro che anche allora i numeri di spettatori degli anni’80 non potranno tornare.
Eppure in un editoriale di Bartoletti, del 1987, si leggeva di referendum sul nucleare, di responsabilità civile dei magistrati, di attacco alla Libia. Tutto torna, dunque, in politica come nel calcio?
Può darsi. Da questo punto di vista ci darà delle risposte il nuovo stadio della Juventus, che sorgerà sulle ceneri del vecchio Delle Alpi. Lì sapremo se siamo davvero in grado di tenere testa agli standard dell’Inghilterra, con impianti comodi, in cui i tifosi potranno mangiare anche a poche ore dall’inizio delle partite, comprare materiale del club. Sarà un esperimento per vedere l’effetto che fa uno stadio del genere sui tifosi italiani.
Intervista a cura di Giovanni Tarantino
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