domenica 3 aprile 2011

La congrega cioraniana tra pensiero frammentario e inquieto novecento

Dal Secolo d'Italia del 3 aprile 2011
«Noi deriviamo la nostra vitalità dal magazzino della pazzia». Un magazzino assai ben fornito, quello di Emil Cioran, cui hanno attinto tante penne che una sana follia l’hanno fatta diventare alimento quotidiano, prima ancora di raccontarla. Uno su tutti: Charles Bukowski, cioraniano (in)consapevole che, con lo scrittore rumeno, condivideva una passionaccia per quei due «tedeschi dall’animo amaro – così l’autore delle Storie di ordinaria follia definì Nietzsche e Schopenhauer – che mi tennero allegro un po’».  
Leggiamoli. «Tutti parlano di teorie, di dottrine, di religioni, insomma di astrazioni; nessuno di qualcosa di vivo, di vissuto di diretto. La filosofia, da sola, è un’attività derivata, astratta nel peggior senso della parola. Quello che mi interessa è la mia vita. Per quanti libri sfogli, non trovo niente di diretto, di assoluto, di insostituibile. Dappertutto è il solito vaniloquio filosofico». Così parlò Cioran nei suoi Quaderni 1957-1972 (Adelphi). A chi si rivolge Cioran? A coloro che, come lui, sono avviati alla catastrofe. E a quelli che sono riusciti a collocarsi oltre la catastrofe. «La mia più grande ammirazione va a chi si è trovato sull’orlo del precipizio – scrive – e per questo motivo ho amato Nietzsche o Otto Weininer. Nella letteratura il mio interesse va soprattutto a ciò che è fragile, precario, a ciò che sta crollando, e anche a ciò che resiste alla tentazione del crollo, ma mantiene la costante del pericolo...».
Ultimo tra gli ultimi, ubriacone tra gli ubriaconi, marginale tra i marginali, è (stato) anche Bukowski. Così si racconta nella biografia Panino al prosciutto (Sugarco): «Tiravo giù dagli scaffali della biblioteca cittadina un libro dietro l’altro. Perché nessuno gridava? Perché nessuno parlava di vita?». Poche le eccezioni. Rari gli scrittori che non avevano paura delle emozioni. Da qui l’ammirazione di Buk per John Fante, per Knut Hamsun, «che mangiava la propria carne per continuare a scrivere» e per il più grande e folle di tutti: Louis Ferdinand Céline. E ancora: Ezra Pound – che, chiuso in una gabbia ad arrostire, rischiò davvero di impazzire – e Hemingway, “pazzo” per le corride quanto Buk lo era delle corse dei cavalli: «Gli ricordavano dov’era e cosa faceva». Già, la vita non può ridursi a pagare le bollette, far cambiare l’olio alla macchia e via discorrendo. Meno che mai a studiare.
Lo sapevano bene i ragazzi degli anni Ottanta e Novanta, che avevano fatto di questi autori dal fascino contagioso dei veri e propri maestri di vita. Mario Bernardi Guardi, con riferimento a Cioran, le ha definite «fascio-fascinazioni». Qualcun altro, invece, avrebbe parlato di cattivi maestri. Di certo non Gino Armuzzi, scrittore milanese che nel 2004 ne aveva arruolati più d’uno per il suo esilarante Sognavo d’essere Bukowski (Sperling & Kupfer): «Da Hemingway a Miller, passando per la beat generation dei Kerouac, dei Ginsberg e dei Burroughs, questi maestri ci hanno spinto all’abuso consapevole di alcolici e di stupefacenti nonché a intraprendere improbabili safari in Africa». Paradossale: per quanto al “culmine della disperazione” – Hemingway, peraltro, si suiciderà – sono stati proprio loro a spingere intere generazioni verso la vita, quella che loro stessi avevano cercato nei libri. L’imperativo – scriveva ancora Armuzzi – era «vivere come Miller, morire come Mishima, uccidere come Burroughs e sognare di essere Bukowski».
Attenzione, però. La divisa di scrittori nichilisti, maledetti, folli – per l’appunto – e quant’altro hanno cucito loro addosso, finirebbero per stargli stretti come può esserlo un cliché. Se Beniamino Placido si preoccupava che i libri di Bukowski potessero traviare i giovani, che ne traessero «la legittimazione letteraria di ogni disgregazione, di ogni dissociazione, di ogni disgusto esistenziale», analoghi rimproveri venivano mossi a Cioran. «Lei non si rende conto, questo libro potrebbe finire in mano a dei giovani!», gli urlavano.
«Che assurdità – rispondeva lo scrittore rumeno – ma a cosa serviranno mai i libri? A imparare? No di certo, per imparare basta andare a scuola. No; io credo che un libro debba essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Un libro deve sconvolgere tutto, rimettere ogni cosa in discussione. Un libro che lascia il lettore uguale a com’era prima di leggerlo, è un libro fallito». C’è il dichiarato intento di muovere le coscienze, di restituire alla vita, esorcizzando la malattia, la morte e tutti gli orrori della quotidianità. In tutti i libri, di Cioran come anche di Bukowski, accanto al pessimismo e alla impietosa fotografia della realtà, resiste e brilla per contrasto una gioia inspiegabile, talmente vitale da risultare provocatoria.
«È curioso – spiegò Cioran a Fernando Savater – ma me lo hanno detto in molti. Più di qualcuno ha confidato: “Mi sarei suicidato se non avessi letto Cioran”. Io non sono pessimista, ma violento... è questo che rende vivificante la mia negazione. Ferire qualcuno non equivale affatto a paralizzarlo! I miei libri non sono né depressivi né deprimenti. Li scrivo con rabbia e con passione. Se potessero essere scritti a freddo, allora sì che sarebbe pericoloso. Ma non posso scrivere a freddo, sono come un malato che, in ogni circostanza, supera febbrilmente la propria infermità».
Una cura che prevedeva la scrittura di testi impegnativi ma anche una miriade di aforismi folgoranti, sulla scia dell’esempio offerto da Nietzsche. «Credo che la filosofia non sia più possibile se non come frammento – chiosava Cioran – ma piuttosto sotto forma di esplosione. Ormai non è più possibile mettersi a elaborare un capitolo dopo l’altro in forma di trattato. Sotto questo aspetto Nietzsche è stato sommamente liberatorio. Ed è stato lui a sabotare lo stile della filosofia accademica, ad attentare all'idea di sistema. È stato liberatorio perché, dopo di lui, si può dire tutto». Un pensiero frammentario può riflettere tutti gli aspetti della vita, uno sistematico difficilmente potrà non essere controllato, moderato, filtrato, in una parola: impoverito.
«In Nietzsche come in Dostoevskij si esprimono tutti i tipi di umanità possibili, tutte le esperienze. Nel sistema parla soltanto il controllore, il capo. Il sistema è sempre la voce del capo: proprio per questo ogni sistema è totalitario, mentre il pensiero frammentario rimane libero». E attuale, aggiungiamo noi.
Roberto Alfatti Appetiti

1 commento:

dal caos la stella danzante ha detto...

"Tutti parlano di teorie, di dottrine, di religioni, insomma di astrazioni; nessuno di qualcosa di vivo, di vissuto di diretto…"
Il problema è il solito, ora sempre più emergente: 'tutti' come categoria del 'vuoto' e del 'nulla' (da non confondersi con il Nulla, il 'vuoto creativo') e – altro ossimoro – 'nessuno' come categoria del 'pieno' (e del 'vuoto creativo').
D'altronde, per ripetermi con Cioran: "la turba … è incapace di comprendere il rapporto esistente fra idea di vuoto e sensazione di libertà (…) sempre confonderà apparenza e sostanza”.
E che ci sia questa confusione tra 'idea di vuoto' e 'sensazione di libertà' lo si comprende bene in questi giorni, quando i 'paladini' (un po' pallosi, in tutti i sensi) della 'libertà' cercano disperatamente di arrampicarsi sugli specchi (grazie agli specchetti per le allodole), continuando imperterriti a tirare i remi in barca. E nel frattempo il 'barcone' affonda...
Nicola Perchiazzi