venerdì 1 aprile 2011

Quando lo Stato uccide (la mia recensione al libro di Della Longa e Lai)

Quando chi uccide indossa la divisa
Dal Secolo d'Italia di venerdì 1 aprile 2011
Stefano Cucchi fu ricoverato, sì, presso la struttura "protetta" - quella riservata ai detenuti - dell'Ospedale "Sandro Pertini" di Roma. Ma per essere nascosto a occhi indiscreti che potessero verificare le drammatiche condizioni fisiche in cui era stato ridotto e sottrarlo «intenzionalmente» alle cure di cui aveva bisogno. Così il gup Rosalba Liso, martedì scorso, ha motivato la condanna a due anni di reclusione per Claudio Marchiandi, un funzionario del provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, e il rinvio a giudizio davanti alla Corte d'assise di agenti, medici, infermieri del Pertini che lo avevano in "custodia". Altro che «presunta morte naturale», come recitava il certificato di morte. Per i genitori fu sufficiente vederlo all'obitorio - prima no, non gli fu concesso - per capire quello che era successo: un occhio pesto e l'altro completamente incavato, la mascella rotta, ecchimosi ovunque. Il pidiellino Carlo Giovanardi ebbe persino l'impudenza di dichiarare che era stata la droga a ridurlo così. «La droga - disse all'emittente Radio 24 - rende larve, zombie». E le fratture alla colonna vertebrale e al coccige? Effetti collaterali, o altro...? Cosa è successo nei sotterranei del tribunale? Le risposte iniziano ad arrivare, malgrado reticenze, omertà e depistaggi di chi non ha esitato a coprire le proprie mele marce.
A tal proposito, proprio in questi giorni, è arrivato nelle librerie un libro prezioso quanto scomodo, dedicato a tutte le vittime degli abusi "in divisa" e alle loro famiglie, scritto da due giornalisti coraggiosi, Tommaso Della Longa e Alessia Lai Quando lo Stato uccide (Castelvecchi, pp. 245, € 16,00).
«Un'indagine senza pregiudizi sul grave problema della violenza delle forze di polizia» - chiarisce il sottotitolo - ma, aggiungiamo noi, un pregiudizio resiste, quello dell'innocenza che tende a diventare una verità assoluta, concesso ai responsabili dei crimini. Tanto più odiosi «perché chi veste una divisa deve avere la capacità di essere sempre giusto». Chi perde, infatti, è quasi sempre la parte disarmata o comunque senza potere.
Della Longa e Lai non si sono limitati a collezionare ritagli di stampa. Muovendo da una disanima approfondita di un quadro legislativo a maglie larghe che - ieri per gli anni di piombo, oggi per il terrorismo internazionale - assegna alle forze dell'ordine «un potere discrezionale che apre la strada a eccessi pericolosi», si sono calati nei singoli fatti. Hanno parlato con legali e familiari, passando al setaccio dolore, rabbia e speranze per restituirne un racconto il più onesto possibile. Ne viene fuori una fotografia desolante: l'Italia figura nella black list di Amnesty International per maltrattamenti e omicidi a opera delle forze dell'ordine, decessi in carcere mai chiariti, ritardi nelle inchieste, mancata ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro le torture. Un libro senza sconti, il loro, ma che non lascia spazio a facili generalizzazioni, ricordando i tanti tutori dell'ordine che svolgono con serietà e abnegazione le loro mansioni, anche in costante carenza d'organico ed equipaggiamenti, con una formazione permanete carente e basse remunerazioni. Non a caso, infatti, un capitolo del libro è "a microfoni aperti" e dà voce ai sindacati di categoria. Un'opportunità che ha permesso loro di farsi portavoce dei tanti problemi esistenti ma anche, come nell'intervista ad Antonio Saviano, presidente nazionale dell'Unione nazionale Arma carabinieri e direttore de La rivista dell'Arma, di lanciare precise e circostanziate accuse alle gerarchie militari.
Niente di quello che è accaduto negli ultimi dieci anni finisce sotto al tappeto: dalla condanna dei tutori della legge dopo la "macelleria messicana" della scuola Diaz di Genova alla morte di Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi e tanti altri che non hanno "goduto" dello stesso clamore mediatico ma le cui sconcertanti vicende sono passate sotto silenzio o quasi.
«I problemi emersi in maniera così detonante nell'estate genovese del 2001 - scrivono Della Longa e Lai - venivano da tempo sperimentati nelle curve degli stadi italiani». Come se gli stadi siano stati e siano una specie di "palestra" nella quale le forze dell'ordine vengono addestrate più che a gestire l'ordine pubblico a preparare una vera e propria repressione sulle masse. Si tratta di una analisi inedita e lucida al tempo stesso. La nostra legislazione, sottolineano, è formalmente di prevenzione ma in realtà è repressiva e va nella direzione di un costante inasprimento delle pene.
«Basti pensare - spiega Lorenzo Cantucci, avvocato penalista romano, uno dei massimi esperti nella normativa applicata alla questione ultras - che se Totò Riina evade da un carcere rischia da sei mesi a un anno; se un tifoso di calcio obbligato a firmare quando la sua squadra gioca, magari al circolo polare artico, si dimentica di mettere la firma perché si addormenta, la pena va da uno a tre anni con multa da 10mila a 40mila euro e una nuova diffida da due a otto anni».
Se prima si limitavano a punire i comportamenti degenerativi degli ultras, ora si vuole proprio cancellarne la realtà sociale. Criminalizzare il movimento ultras, sempre e comunque. Basti ricordare la gaffe dell'allora ministro dell'Interno, Giuliano Amato: «Se Gabriele fosse stato lì a prendere un caffè - ebbe a dichiarare, salvo poi scusarsi - non sarebbe successo tutto quel che è poi accaduto». Gabriele è Gabriele Sandri, tifoso laziale, e l'11 novembre del 2007 era all'autogrill di Badia al Pino, vicino ad Arezzo, e pochi minuti prima di essere colpito mortalmente dal proiettile dell'agente Luigi Spaccarotella, aveva avuto una "discussione" animata con un gruppo di juventini. Niente che potesse giustificare l'ingiustificabile Spaccarotella che, nel secondo grado di giudizio, è stato condannato per omicidio volontario con dolo eventuale, ribaltando così la precedente condanna per omicidio colposo. Sapeva quali conseguenze avrebbe potuto scatenare. Sapeva di poter uccidere.
Perché criminalizzare le tifoserie? Perché non hanno partiti alle spalle. Ma, in occasione dell'assassinio di Sandri, ebbero la solidarietà attiva della società italiana, anche di chi allo stadio non ci mette mai piede. E una tale mobilitazione ha sortito i suoi effetti. Una presa di coscienza che gli autori fanno coincidere con i fatti di Genova. Dalla morte di Carlo Giuliani alla famigerata mattanza del giorno dopo quando, nella notte di sabato 21 luglio 2001, nella scuola Diaz fanno irruzione degli agenti del VII Nucleo del Reparto mobile, comandati da Vincenzo Canterini. Il pestaggio è talmente violento e ingiustificato che il vice comandante Michelangelo Fournier - colui che coniò la definizione di "macelleria messicana" - deve gridare agli agenti di smettere e fa chiamare un'ambulanza. Purtroppo ne serviranno molte. Melanie Jonasch, studentessa di archeologia, è ridotta in fin di vita. Il giornalista britannico Mark Cowell resterà in coma per quattordici ore ma i suoi aggressori, ad oggi, non sono mai stati individuati.
Una pagina buia che più buia non si può, una macchia indelebile sulla reputazione delle forze dell'ordine. Nella sua requisitoria, il procuratore generale Machiavello aveva detto: «Non si possono dimenticare le terribili ferite inferte a persone inermi, la premeditazione, i volti coperti, la falsificazione del verbale di arresto di 93 persone, le bugie sulla presunta resistenza. La sistematica e indiscriminata aggressione». Violenze continuate nella caserma di Genova Bolzaneto dove vennero portati fermati e arrestati.
Il libro continua con le storie di altri "protagonisti" involontari e, come nel caso del diciottenne ferrarese Federico Aldrovandi, del tutto incolpevoli, che se ne andavano per la loro strada. Il 25 settembre 2005 Federico si appresta a tornare a casa da un sabato sera passato con gli amici quando si imbatte in una pattuglia di polizia. Cos'è successo? Una misura di contenimento troppo energica, come si usa dire. Nessuna overdose, come è stato detto e come gli esami clinici dell'autopsia hanno smentito. Hanno riferito che il ragazzo manifestava comportamenti autolesionistici ma, chissà perché, non hanno chiamato i sanitari. Il referto è chiaro: viso sfigurato, sangue alla bocca, ecchimosi all'occhio destro, ferite lacero-contuse dietro la testa, scroto schiacciato e due lividi da schiacciamento sul collo. Solo grazie alle testimonianze la verità è stata ricostruita: dopo una violenta colluttazione, Federico è stato immobilizzato a terra con tanta violenza da provocarne la morte. I quattro poliziotti sono stati condannati a tre anni e sei mesi per eccesso colposo nell'omicidio colposo, ma non hanno scontato la pena a causa dell'indulto e altri tre poliziotti sono stati condannati per i depistaggi nelle indagini confermando l'ipotesi accusatoria dell'intralcio alle indagini sin dal primo momento. Condannati nel luglio 2009 hanno fatto ricorso in appello e - incredibilmente - vestono ancora la divisa. Oltre al danno, la beffa: la madre di Federico s'è beccata una denuncia per diffamazione perché aveva chiamato delinquenti gli agenti. Stessa sorte sarebbe potuta toccare al giovane Stefano Gugliotta, se alcuni testimoni non avessero avuto il coraggio di intervenire e porre fine a un selvaggio pestaggio. È il 5 maggio 2010 e Roma ospita la finale della Coppa Italia di calcio: Roma- Inter. Stefano, però, non è nemmeno andato allo stadio, non ha niente a che vedere col tifo organizzato, è sul suo motorino quando gli agenti lo avvicinano e lo aggrediscono con un improvviso pugno alla testa. Le immagini riprese da alcuni provvidenziali telefonini romperanno il muro di omertà mentre già ci si affrettava a rappresentare Stefano - che comunque si farà una settimana di galera - come un delinquente abituale.
Resta da chiedersi, tuttavia, cosa si sarebbe saputo dei fatti di quella sera senza quei due fortuiti filmati? Sembra domandarselo anche Franco Battiato, cui Della Longa e Lai affidano l'epigrafe al testo. «Povera patria, schiacciata dagli abusi di potere, di gente infame che non sa cos'è il pudore / Si credono potenti e gli va bene quello che fanno e tutto gli appartiene / ma non vi danno un po' di dispiacere quei corpi in terra senza più calore?».
Roberto Alfatti Appetiti

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