martedì 26 aprile 2011

La nazionale libica non si ferma ma questa volta il calcio non aiuterà le ambizioni del raìs

Dal Secolo d'Italia del 26 aprile 2011
La partita più difficile – quella che nessuno vorrebbe mai giocare – è contro la guerra. Quando il boato delle esplosioni copre applausi e fischi e la paura di lasciarci la pelle prevale inesorabilmente sull’amore per la propria squadra, “giocare” diventa maledettamente difficile. Le scene da guerriglia urbana tra forze di polizia e ultras fuori dai nostri stadi, cui siamo purtroppo abituati, rappresentano al confronto degli avvilenti siparietti di ordinaria follia, certamente spiacevoli ma quanto meno circoscritti.  
Lo scorso 18 marzo, mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu imponeva la no-fly zone sulla Libia«con tutti i mezzi a disposizione», incluso il ricorso all'uso della forza, nello stadio di Tripoli la nazionale libica di calcio continuava imperterrita i propri allenamenti, seguita da un numeroso pubblico di appassionati. Perché sarà pur vero che la Libia non è una potenza calcistica ma il calcio è decisamente lo sport nazionale più amato dalla popolazione.
Amore ripagato, perché se il campionato libico, obtorto collo, si è dovuto fermare, la nazionale non ha marcato visita e la sfida in programma con le Isole Comore – che si sarebbe dovuta tenere a Tripoli – è andata a giocarsela lo scorso 28 marzo nel Mali, vincendo per 3 a 0 allo stadio di Bamako davanti a circa 20mila presenti. Un minuto di silenzio per le vittime della guerra e novanta minuti di personalità e buona organizzazione di gioco. Una vittoria grazie alla quale la Libia guida ora il girone C per le qualificazioni alla prossima Coppa d’Africa davanti a formazioni di tutto rispetto come Zambia e Mozambico. Successi che l’hanno fatta balzare dal 62° al 58° posto nella classifica generale della Fifa, dietro solamente a nove squadre africane. I campioni non le mancano, specialmente in attacco: dall’attaccante Eamon Zayed, nato a Dublino da padre libico e madre tunisina, alla punta centrale Ahmed Saad Osman, suo lo spettacolare goal che ha deciso la partita contro lo Zambia.
Gran parte del merito, tuttavia, va al nuovo allenatore, il brasiliano Marcos Paquetá. Con lui in panchina, la Libia è ancora imbattuta. Calciatore tutt’altro che brillante – ha appeso le scarpette al chiodo nel 1981 dopo una modesta carriera conclusasi nel Vasco da Gama – si è dimostrato più bravo come coach, conducendo prima la nazionale brasiliana Under 20 alla vittoria di un mondiale e poi l’Arabia Saudita alla prestigiosa partecipazione a Germania 2006.
Fuggito da Tripoli il 23 febbraio per un breve soggiorno a San Paolo, il commissario tecnico ha raggiunto la Tunisia, dove si è tenuto il primo raduno di fortuna della nazionale dopo lo scoppio della guerra. Non tutti i giocatori, però, hanno potuto unirsi alla squadra e chi tra loro è riuscito a mettersi in salvo non ha ancora deciso se tornare a giocare oppure no. Lo stesso dubbio che, del resto, assalì i giocatori blaugrana durante la guerra civile spagnola. Quando, nel 1937, la dirigenza del Barcellona organizzò una tournée in Messico, alcuni di loro preferirono non tornare in patria e sistemarsi altrove, chi solo per un periodo e chi definitivamente. Si scoprì anni dopo che il campo barcellonese di Les Corts era stato usato per nascondere gli esiliati politici, perseguitati sia dai franchisti che dagli anarchici, per poi farli scappare di notte dal porto. La nazionale libica, per quanto si sa, sembra stringersi accanto a Gheddafi – il capitano libico, Tariq Ibrahim al-Tayib, ha affermato che «tutta la squadra sta con Muammar Gheddafi» – ma l’affermazione indica piuttosto la forte soggezione in cui vivono i giocatori. Se sinora hanno goduto di uno status privilegiato, infatti, in caso di dissidenza potrebbero vedersi arrivare una cartolina precetto. Gheddafi, da parte sua, non ha mai nascosto di pensare alla nazionale di calcio come a uno strumento utile per affermare la sua ambizione di porsi alla guida di un movimento pan-africanista. La qualificazione ai Mondiali gli è sempre sfuggita, eppure la Libia può vantare due partecipazioni alla Coppa d’Africa e persino una finale, persa ai rigori con il Ghana, nell’edizione del 1982. In quell’occasione la Libia era il paese organizzatore e quindi qualificato di diritto – l’ Egitto diede forfait per tale assegnazione, dopo l’assassinio del presidente Sadat – e la cerimonia d’apertura offrì a Gheddafi un prezioso palcoscenico per tuonare contro i «regimi “fantoccio dell’Occidente” e l’imperialismo americano».
Il calcio come arma di propaganda ancora una volta? Se questa è l’intenzione, Gheddafi potrebbe riceverne una cocente delusione. Mustafa Abdel Jalil, carismatico ex attaccante della nazionale, è diventato uno dei leader più ascoltati della rivolta, tanto popolare da potersi permettere di criticare apertamente il Rais ancora prima che scoppiasse la guerra civile. Le cui prospettive non sono rosee per il dittatore. Una cosa, tuttavia, è certa: sarà molto difficile che nel 2014 la Coppa d’Africa si terrà in Libia, come sembrava possibile sino a qualche tempo fa. Non soltanto appare impraticabile il necessario rinnovo degli stadi 28 marzo di Bengasi e 11 giugno di Tripoli, così come la costruzione dei due impianti nuovi previsti a Tripoli e Misurata, ma da valutare ci saranno soprattutto i danni provocati dalle bombe e la lunghezza della guerra, che tutti – non solo i tifosi – si augurano breve.
Roberto Alfatti Appetiti

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