martedì 19 aprile 2011

Luciano Lanna saluta e ringrazia i lettori del Secolo d'Italia

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia del 19 aprile 2011
«Quando a diciassette anni», ha scritto nella sua autobiografia il compianto Gaspare Barbiellini Amidei, «cominciai il mestiere al Secolo d'Italia, dove mi aveva portato il cognome, reso famoso negli anni di guerra dalla medaglia d'oro alla memoria di mio padre, caduto eroicamente in Grecia, mi presentai a Giorgio Almirante, direttore del quotidiano del Movimento sociale italiano».
In quel ragazzo - figlio e erede, come buona parte della società italiana del secondo dopoguerra, di un fascista - c'era la consapevolezza di una vocazione che partiva dalla sua stessa storia familiare. Suo padre, Bernardo, era stato un fascista della prima ora, oltre che un intellettuale cattolico arrivato giovanissimo a dirigere l'Istituto Orientale di Napoli, voluto da Mussolini per dialogare col mondo musulmano. «Tutte le religioni - scriveva l'ex combattente della Grande Guerra - hanno delle basi morali di gran lunga superiori alla più calorose dottrine politiche; il Corano in rapporto ai tomi dell'erudizione marxista è l'infinito in rapporto a una frazione di unità». Non a caso suo figlio, dopo essere stato giovane caporedattore al Secolo, passerà prima al Giornale d'Italia, quindi diverrà vicedirettore del Corriere della Sera e anche direttore del quotidiano romano Il Tempo, dove nel 1986 testimonierà la coerenza con la sensibilità e la cultura che erano proprie anche di suo padre. Fu al Tempo - ha ricordato -, «giornale considerato il più a destra nello schieramento dei grandi quotidiani», che di fronte alla notizia di un raid che aveva bruciato alcune roulotte in un campo di zingari alla periferia di Roma, Barbiellini Amidei non volle minimamente compiacere i presunti istinti dei suoi lettori ma denunciò quel brutto episodio d'inciviltà. «Scrissi», annoterà poi il giornalista, «un articolo di fondo un po' arrabbiato con gli xenofobi, dal titolo "Cristo zingaro e borgataro". E arrivarono le telefonate di protesta». Ma quel grande giornalista che aveva esordito al Secolo d'Italia diede una lezione di stile: mai porre in secondo piano le proprie idee e le proprie convinzioni, anche rispetto alle cosiddette ragioni di opportunità editoriale.
Mi piace ricordare questa figura e questo episodio nel momento in cui concludo la mia esperienza al Secolo, che in verità è la seconda dopo il periodo di praticantato iniziato nel dicembre 1990 sotto la direzione del compianto amico e direttore Giano Accame. Altro grande giornalista che quando, nel 1988, assunse quel suo incarico da "indipendente" scriveva di farlo con il «senso di appartenenza a una comunità ideale. A questa comunità - spiegava nel suo primo editoriale - mi sono legato arruolandomi a 16 anni, il 25 aprile del 1945, nella Marina della Rsi. Sono poi maturato attraverso una quantità di letture e di esperienze, ma non ho mai rinnegato quel mio ingenuo e rischioso gesto di generosità giovanile». E quando l'8 febbraio lasciava anche lui il Secolo, Giano scriveva: «Mi ritroverete nei miei prossimi due libri: La morte dei fascisti e Ezra Pound economista, a cui stavo lavorando nel momento di assumere questo incarico». La stessa indicazione suggerisco adesso io ai miei lettori: da un paio di mesi è disponibile il mio libro Il fascista libertario (Sperling & Kupfer) che in qualche modo ha sistematizzato e presenta in modo organico le riflessioni e i ragionamenti che ho condotto in questi sei anni e mezzo sulle colonne del nostro Secolo, dal 1° ottobre 2004 come caporedattore e dall'aprile 2006 in qualità di direttore responsabile. Un lavoro che oggettivamente ha consentito a questo giornale di cambiare, di aggiornarsi, di aprirsi all'esterno, di estendere le sue pagine anche sul fronte dell'immaginario e di quei versanti nei cui confronti una certa destra ha sempre mostrato un complesso di subalternità culturale.
Mi ero dimesso dalla mia precedente esperienza professionale, vicedirettore de L'Indipendente, anche perché non condividevo alcune posizioni - il giudizio non garantista sul caso Sofri e quello ostile alla religione islamica - che erano apparse su quel foglio. Sul Secolo invece ho potuto lavorare in piena sintonia con le mie convinzioni, consentendo al nostro quotidiano di smarcarsi dal becerume che caratterizza troppi giornali non di sinistra. E con la mia presenza in redazione il Secolo ha potuto pubblicare un editoriale di attenzione al fenomeno del veltronismo così come ha anticipato pressoché tutti gli "strappi" epistemologici che hanno dimostrato la possibilità in Italia dell'esistenza di un'altra destra. Quanti e quali dibattiti sono stati aperti da queste colonne? Chi può disconoscere il fatto che in questi ultimi cinque-sei anni il Secolo abbia ritrovato un'autorevolezza tale da consentire di essere citato in tutte le rassegne stampa e di far intervenire i suoi giornalisti e le sue firme ai dibattiti televisivi o radiofonici?
Non a caso, all'inizio citavo due figure come Gaspare Barbiellini Amidei e Giano Accame. Alla loro lezione va infatti il mio infinito ringraziamento per aver anch'io interiorizzato un certo modo di intendere il giornalismo. D'altronde, da ragazzo il mio professore di italiano al liceo, Alfredo Stirati, mi aveva insegnato la frase «la nostra patria è dove si combatte per le nostre idee». Idee che continueranno a ispirare ancora il nostro lavoro.

Luciano Lanna

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