domenica 17 aprile 2011

E Simon torna "così", con in dote quell'idea rock'n roll e afro (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 17 aprile 2011
Una strana macchina del tempo, la creatività di certi vecchi artisti invecchiati bene: guardano il mondo di oggi e lo descrivono con gli occhi di uomini, o persino di ragazzi, di qualche decennio fa. O magari parlano delle proprie vite che a poco a poco declinano come se loro non fossero affatto in un nuovo secolo, e in un nuovo millennio, ma ancora in quello passato.

Parlano come se stessero affrontando-abbracciando-scalciando la loro vecchiaia, poniamo, nel 1980. Col futuro tecnologico che bussa alla porta ma non l'ha ancora sfondata. Con la disgregazione occidentale che si rivela in qualche scricchiolio sinistro dell'economia e delle istituzioni, ma che non ha ancora svelato l'irrimediabile profondità delle sue crepe. Con la vacuità dello show-business che corteggia l'Arte e la Cultura, o il pop di rango superiore che si dipana - spregiudicato e nobile a un tempo, sgrammaticato e geniale nel giro di un istante, profondissimo senza quasi saperlo o grossolano senza preoccuparsene affatto - nelle forme inclassificabili del cinema, del rock, del fumetto, del romanzo di genere, del musical ambizioso e irriverente alla Jesus Christ Superstar e alla Hair. Lo show-business che tutto compra e tutto rivende. Offre il successo planetario. Chiede in cambio la dannazione di accettarlo. Di anteporlo alla ricerca autentica e interminabile che non si stanca mai di interrogarsi. Alla sincerità inquieta che si staglia contro il Cielo, ma che non esita a correre il rischio dell'autolesionismo. Lo stesso salto nel vuoto che può portarti più in alto può farti precipitare nell'abisso.
Eppure, negli anni Ottanta era tutto ancora in bilico. Tutto possibile. E pertanto assai meno terribile, poiché è davvero terribile soltanto ciò che è definitivo, o lo sta diventando. All'epoca Paul Simon, classe 1941, stava finendo di individuare i punti cardinali di quel suo mondo aggraziato e circoscritto, come una tenuta non troppo vasta ma costellata di scorci deliziosi, e a volte sorprendenti. Prima aveva vagabondato un po' qua e un po' là, raccogliendo quella miriade di suggestioni di cui ancora non aveva capito esattamente cosa fare e che però non ha mai dimenticato, e tantomeno rimosso: «Al top della mia piramide artistica ci sono Presley e Bo Diddley, ma poi tutti gli autori rock'n'roll di tempi lontani lontani: Chuck Berry, Fats Domino, il Doo Woop. Amo il suono dei '50, così semplice e scarno: mi sembra moderno ora, come quello delle indie band». Nel tracciare i confini, però, era partito dal nord-ovest delle ballate cristalline rese celebri insieme ad Art Garfunkel, con quei profili limpidi di paesaggi che si rivelano nella luce chiara dell'alba, o che scolorano nella malinconia leggera del tramonto. Poi, via via, era sceso più a sud. In cerca di ritmi altrettanto immediati di quelli statunitensi ma meno consueti. Era uscito dall'Occidente. Aveva guardato altrove, e incontrato l'Africa. Aveva capito che scrivere una canzone è solo un punto di partenza: un po' come mettere al mondo un figlio che poi dovrà crescere e che, crescendo, cambierà la sua fisionomia. L'arrangiamento non è solo un abito. È il seme nascosto che dà frutto, se sei capace di individuarlo tra tutti gli altri. E di coltivarlo come si conviene.
Al tempo di The Boxer e di The Sound of Silence non lo sapeva ancora. Gli bastava comporre. Fissare a uno a uno tutti gli accordi e tutti i versi. La musica era affascinante, le parole significative e toccanti, l'impegno della creazione sembrava finito lì. Se non che, caro il mio giovane e brillante e inesperto Paul Simon, essere un artista che pubblica dei dischi è molto di più che essere un autore. Lo spartito è la mappa. L'incisione è il viaggio. La band è la tua carovana. La spedizione che ti accompagna. Che ti segue come si segue un capo, ma che ti consiglia come si consiglia un comandante saggio che non si sente affatto diminuito nel consultare i suoi soldati migliori. Se tutto andrà bene sarai tu a vincere la guerra. E sarà questa l'unica cosa che la maggior parte della gente ricorderà. Ma i più attenti vorranno saperne di più e ricostruiranno i singoli episodi. Rendendo merito a questi comprimari che restano in secondo piano, ma che sono stati decisivi.
Quasi cinquant'anni dopo, Paul Simon lo ha imparato alla perfezione. Il nuovo album, So Beautiful or So What, è un esempio eccellente di quel che significa trasformare una stesura iniziale (completa/incompiuta) in una versione definitiva (completa/compiuta). «Mi sono chiesto: che cosa mi piace del mio ultimo album Surprise e questo mi ha portato a ritrovare una prospettiva armonica, non un vero e proprio ritmo. Si noterà che in questo album non c'è il basso. Ho semplicemente deciso che il basso non mi piace. Ora il mio gusto si orienta verso un mix di rock'n'roll anni Cinquanta e musica afro».
Il risultato è notevole. Fin dal primo ascolto l'impressione è che tutto sia perfettamente a fuoco, come un'immagine che colpisce per il suo estremo nitore ancora prima che per ciò che mostra. Per dirla con Elvis Costello, uno che di arrangiamenti se ne intende eccome, e che perciò sa distinguere tra la confezione e la sostanza, «questo è un uomo in pieno possesso delle sue doti, che guarda allo spettacolo e alla bellezza della vita con la chiarezza e la semplicità che sono doni del tempo». L'età avanzata come un patrimonio, che non è servito tanto ad accumulare quanto invece a selezionare. L'età avanzata che spinge a chiedersi cosa ci sarà al di là dell'epilogo, ammesso che qualcosa ci sia. Si continua a guardare la realtà circostante, dal momento che siamo ancora qui; si comincia a immaginare un eventuale prosieguo, in un modo o nell'altro. In un mondo o nell'altro. «Il titolo è una domanda: So beautiful or so what (Così bello o così cosa?). Che cosa pensiamo della nostra vita? Per quanto mi riguarda scelgo So beautiful... Non si tratta tanto di ottimismo, quanto di capire davvero la bellezza che abbiamo ereditato. Non sono così ottimista in merito alle nostre capacità di preservarla, purtroppo».
Così tocca all'arte, ricordare quella bellezza che nella Natura ci sfugge. Consciamente o inconsciamente, ma con tutta la cura di cui si è capaci. Una cosa piccola come una canzone che diventa grande come un'intera esistenza.
Federico Zamboni

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