mercoledì 13 aprile 2011

Mia madre è un fiume (recensione di Mario Bernardi Guardi)

Madre e figlia nel labirinto della memoria
Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia del 13 aprile 2011
«Mamma, son tanto felice perché ritorno da te,/ la mia canzone ti dice ch'è il più bel giorno per me…», cantava (quando? cent'anni fa?) Beniamino Gigli: e dentro c'era tutta la dolcezza ingenua di una dichiarazione d'amore filiale, senza complicazioni edipiche né filtri intellettualistici. Anche in Mia madre è un fiume (Elliot, pp.179, € 16,00), il romanzo di esordio con cui Donatella Di Pietrantonio, che di professione fa la dentista per bambini, si candida allo Strega ("padrini" Manlio Cancogni ed Ernesto Ferrero), c'è amore. Un "fiume" d'amore.  
Raccontato con un linguaggio a un tempo tenero e aspro come l'Abruzzo rupestre che è lo scenario della storia; e con una freschezza, franchezza, castità di accenti, e improvvise irruzioni di desolata, struggente passione, come da tempo non ci capitava di trovare. Non ci capitava neanche di essere avvolti dalla commozione e non solo di non vergognarcene, ma di non poterne/volerne fare a meno. Forse succede così con le cose vere, quando scopri che le pagine riescono ad essere carne. «Anche il corpo ha un suo spirito», diceva Friedrich Nietzsche, e qui ci sono un corpo e uno spirito - la madre, Esperia Viola, detta Esperina - offesi dalla vecchiaia e dalla malattia - l'atrofia cerebrale, che ti annichilisce la capacità di ricordare, oppure te la imbroglia, tra vero e falso, presente e passato, in un gran rimescolìo di facce, situazioni, emozioni; e un altro corpo e un altro spirito - la figlia - che in passato sono stati assaliti da un bisogno di amore e di attenzione che per mille ragioni - tutte, escluse cattiveria e indifferenza - non è stato soddisfatto a pieno, e che non ce la fanno ancora ad elaborare il lutto di quel desiderio inappagato. E non è che corpo e spirito "tornino" dalla mamma, come dice la canzone, perché con lei non ci sono mai stati come avrebbero voluto, ma ci "vanno", per la prima volta, e offrono tutto l'aiuto che possono offrire, cercando di farla parlare e ricordare, e non è facile con quella povera mamma dalla mente sbiadita. Non c'è nulla di facile, perché i nodi di quello che non è stato detto, che non è stato fatto, che non hai avuto quando ardentemente lo desideravi, non si sciolgono d'un balzo, e allora c'è in te la pena per la mamma com'è, e il risentimento per la mamma com'era. Lo dici a chiare note: « Il nostro amore è andato storto, da subito. Era troppo educata al sacrifico per permettersi il piacere di stare con la sua creatura. Ogni tanto alzava gli occhi dalla terra che lavorava e guardava quel fagotto lasciato su una coperta all'ombra di un albero. C'ero. Un piano forte l'avrebbe sentito. Si rassicurava».
Ma com'era Esperina? Era, è un fiume: lo scrive la figlia. «Erano un fiume i suoi capelli scuri e sottili che la corrente divideva ai lati del viso, onde a cascata sul seno, li pettinava la sera, dopo tutte le fatiche. Camminava e cantava, il fiume a fluttuare nel vento, ma solo qualche volta, di solito li raccoglieva in una crocchia. Intorno ai trent'anni tagliò i capelli per sempre, divennero insignificanti, pratici. Era un ruscello. Ne scorreva uno non lontano da casa sua e nelle più serene notti d'estate apprezzava la cascatella dalla finestra aperta, mentre i cani stavano zitti. È un fiume di vecchi ricordi salvati, che ripete a tutti. Ci si afferra forte perché la sua storia non deflagri. Restano pochi, adesso. Mi occupo della supplenza, sono il suo scriba. Mia madre era un fiume di parole, ora di frasi stereotipate. Quanto cresce Giovanni, chi non si muove non mangia, che freddo stamattina. Al telefono chiede di continuo dove mi trovo. Sapermi al lavoro la rassicura. È stata la cifra della sua vita. È un fiume in secca, la neve dei pioppi lo sorvola. L'ombra dei sassi cade sul letto bianco, crepato. Qua e là una pozza d'acqua ancora, ferma e densa, lambita dagli insetti. Fa odore di morte».
Ma lei, la figlia, nella "morte" ci deve portare la vita. Prendendo per mano la mamma, "nominando" le cose. Quelle quotidiane, gli oggetti che ci sono in cucina, le pietanze da preparare: adesso facciamo questo, mamma, adesso facciamo quello. E poi, visto che le immagini del passato sono frantumate o quanto meno confuse, la figlia gliele deve far reimparare: questa eri, mamma, ed eri bella, «la tua infanzia è stata povera, ma non affamata», tuo padre si chiamava Fioravante, tua madre Serafina, tu sei figlia della sua prima licenza , e di figlie ce ne sono state altre cinque, tuo padre fu fatto prigioniero dai partigiani di Tito, tornò a casa che aveva trent'anni, pesava trentacinque chili ed era diventato comunista, «non si è goduto il riposo del soldato, si è rimesso in forze mangiando e ha ripreso il lavoro da contadino pastore dove lo aveva interrotto», tua madre gli era devota e soffriva perché lui bestemmiava, commentando i notiziari televisivi ( fu il primo della contrada ad avere la radio e poi, a rate, la televisione). Soffriva, soprattutto, quando le bestemmie erano indirizzate a san Gabriele dell'Addolorata, il santo locale, e una volta l'anno a fine estate, «vi svegliava all'alba, solo le più grandicelle, e v'incamminavate con lei su un sentiero tra i boschi per arrivare alla chiesa di Isola del Gran Sasso verso mezzogiorno. Lì chiedeva perdono per quello sciagurato, vi comprava le spillette con il santino, dolce e pensoso. Anche tre o quattro etti di porchetta, da mettere in mezzo al pane portato da casa».
«Questa era la tua vita, mamma. E le tue sorelle si chiamavano Valchiria, Diamante, Clorinda, Clarice e Nives. Oggi ti interrogo su quello che hai imparato a scuola. Oggi ti racconto i miei amori di ragazzina. Oggi ti parlo di Don Cesidio, quello schifoso del mezzadro, signore dei servi e servo del signore. Ti racconto di come ho partorito Giovanni. Ti ricordi? Non volevi lasciarci, sei rimasta con me nella stanza numero cinque. Avevo la camicia macchiata di sangue, hai detto non fa niente, non cambiarla, perché tremavo, di freddo e gioia. Hai aggiunto una coperta, poi, sulla poltroncina nell'angolo, la stanchezza del giorno è scesa sopra di te. Non ho dormito tutta la notte, il tuo respiro si sintonizzava con quello dell'altra puerpera. Intuivo, fuori, un rumore soffice di evento straordinario: cadevano quaranta centimetri di neve. Aspettavo che mi portassero Giovanni. E nemmeno tu dormivi, dal letto ti ho sentito rilassata, vigile. A intervalli variabili venivi a provarmi la febbre, come a una figlia piccola. Vedevo la tua sagoma piena muoversi nel buio parziale. Alle sei mi hanno restituito il bambino, ero stremata dalla separazione. Lo guardavamo insieme sotto il neon. La lunga persistenza in me, mentre l'acqua si asciugava intorno, gli aveva procurato un'epidermide secca da vecchietto, che in superficie si staccava a piccole foglie trasparenti. Petali, sembravano, e considerando la pelle e le movenze della mani affusolate: ho partorito mio nonno, ti ho sussurrato. Somigliava al bisnonno Rocco, scomparso pochi giorni dopo il concepimento di Giovanni».
Cronache familiari. Album di fotografie. Il lavoro e gli amori, la vita e la morte. I luoghi, i tempi. L'Abruzzo della quotidianità laboriosa e dolorosa. E quello mitico, sacro, fatale, ad esso irresistibilmente intrecciato. Il mestiere di vivere: un lunghissimo apprendistato. Quello di amare, poi. Tante le cose che "si sentono", ma quante "si dicono"? E tu magari hai bisogno della parole, e del corpo, di sentirti accanto il corpo di tua madre, nel lettone dove lei sta con il babbo, e se lei non ti ci vuole, sogni di ammalarti e di morire. Così impara. E adesso tocca a te, di imparare. Perché quella mamma, debole e intenerita, ha bisogno di te, e quasi ti si struscia addosso. E tu ti senti a disagio per quella tardiva richiesta di calore, ma fai tutto per lei, da brava "supplente", perché impari, perché capisca. Tuttavia carezze e baci fanno fatica a venir fuori. Eppure, sei "malata" con lei, "di" lei. E mentre lei sprofonda, tu ti devi innalzare in volo. Mica facile.
«Mi manca la grazia, la leggerezza. La zavorra mi tiene a terra, i denti stridono sulle maglie della catena. Ho chiamato ogni limite mia madre. Le ho imputato il mio volo zoppo. Lei è il mio pretesto. È causa, e motivo. Mia madre è un albero. Alla sua ombra mi sono giustificata. Si secca, anche l'ombra si riduce. Presto sarò allo scoperto». Lei ci sarà ancora, però. E ti dirà: «Meno male che sei venuta, ti ha parlato l'angelo all'orecchio».
Mario Bernardi Guardi

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