domenica 1 maggio 2011

Artisti come artigiani nelle botteghe della buona musica (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia di domenica 1 maggio 2011
La prima storia riguarda Joe Strummer. La seconda Peter Green. La terza Ray Charles. All'epoca dei fatti Joe Strummer era l'ex leader dei Clash. Peter Green l'ex "lead guitar" dei Fleetwood Mac. E Ray Charles, invece, era ancora un perfetto sconosciuto: non il professionista di fama mondiale che sarebbe diventato in seguito, ma solo un giovanotto intraprendente, benché cieco, e talentuosissimo, benché immaturo.

La prima storia è la più recente. Di sicuro è successiva al 1995, perché ci sono di mezzo i Mescaleros - il nuovo gruppo di Joe dopo lo scioglimento dei Clash, e dopo una lunga fase di lontananza dai palcoscenici - e i Mescaleros sono nati in quell'anno. Joe Strummer aveva dovuto fare i conti con il passaggio dalla grande fama che aveva avuto a suo tempo, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, a un sostanziale anonimato, che per molti versi si era scelto lui stesso ma che in qualche modo gli andava stretto. Il problema, quasi insolubile, era quello tipico del rock: l'insuccesso ti deprime, certificando un fallimento commerciale che facilmente spinge a credere che si tratti di un fallimento anche artistico; il successo ti esalta, ma tende a imprigionarti in un ruolo prestabilito: che si ripete sempre uguale nel presupposto, a volte vero, a volte falso, sempre sbagliato, che a parità di ingredienti il risultato non cambierà. Come se si trattasse di industria, anziché di invenzione. Come se si trattasse di una formula chimica, anziché di una formula magica.
Joe lo aveva capito. Joe lo aveva rifiutato. Per dirla con le sue parole, «A meno di non ripetersi in eterno nel vuoto, era meglio fermarsi. È forse un giudizio severo su di me e sul gruppo, ma credo che sia lucido». I Clash erano finiti. Lui si era ritrovato da solo. Senza un progetto preciso da portare avanti. Alle prese con l'inquietudine persistente di chi non sa dove andare, ma soffre a stare fermo. Dài e dài ne era uscito. Aveva compreso che la morale della favola era allo stesso tempo più complessa e più semplice, rispetto a quello che gli era sembrato inizialmente. La morale della favola era che la musica viene prima dei dischi. E che prima di trovare gli altri bisogna trovare se stessi. A volte ci si riesce e a volte no. Non è un appuntamento. È un incontro fra viandanti che sciamano di qua e di là inseguendo chissà cosa. La musica non si vende. Si offre. Un concerto è un invito, non un contratto.
Così - come si può vedere nel bel film-documentario che gli ha dedicato Julian Temple e che si intitola Il futuro non è scritto - durante uno dei tour coi Mescaleros Joe Strummer, l'ex celeberrimo leader dei Clash se ne sta fuori dalla sala in cui si svolgerà lo show e si rivolge ai passanti. Dice cose come «Hey, stasera siamo qui a suonare». Come «Perché non venite a sentirci?». Non sembra affatto un imbonitore. E infatti non lo è. È un uomo che pensa che sarà un piacere per entrambi, ritrovarsi a fine giornata a condividere un po' di buona musica. È un uomo che ama il suo lavoro. Sta sulla soglia della sua bottega (di artigiano? di artista?) e spera che la gente non vada così di fretta da negarsi, e da negargli, la soddisfazione di scoprire quello di cui lui è capace, specie nei suoi momenti migliori.
La seconda storia ha per protagonista Peter Green. O almeno: così sostiene chi l'ha raccontata. Di queste tre è la vicenda più incerta, perché si svolge lontanissimo dai riflettori e perché è avvenuta, se davvero è avvenuta, in un momento della vita di Peter Green in cui era a rischio la sua stessa sopravvivenza. La metà degli anni Settanta, all'incirca. La fase in cui Peter, nato il 29 ottobre 1946 nei dintorni di Londra, aveva ormai abbandonato i Fleetwood Mac ed era svanito nel nulla dopo aver inciso un album solista del calibro di The End of the Game. Sembrava incredibile: un chitarrista del suo talento. Sembrava pazzesco: un artista della sua notorietà. Era dipeso dall'Lsd? O da qualche altro genere di squilibrio interiore, di quelli che non troppo di rado colpiscono gli artisti di maggior talento? Fatto sta che lui era sparito dalla circolazione. E non se ne sapeva più niente.
La storia è appena un frammento, in realtà. Qualcuno raccontò di essersi fermato a fare benzina, a un distributore sperduto nella provincia inglese, e di aver notato che l'addetto assomigliava appunto a Peter Green. Aveva avuto la tentazione di chiederglielo. Aveva lasciato perdere. Ma quando l'uomo aveva allungato le dita sul parabrezza, per pulirlo, aveva notato che sulla punta delle dita della sua mano sinistra c'erano le tipiche, piccole callosità dei suonatori di chitarra. I segni del mestiere.
La terza storia riguarda Ray Charles. Che nel 1947 non ha nemmeno 18 anni e se ne sta ancora in Florida, dov'è cresciuto, ma medita di cambiare aria. Ormai se la cava, sia a suonare il pianoforte che a cantare, ed è abbastanza conosciuto, nel giro dei musicisti itineranti. Però vuole andarsene via. E allora parla con un suo amico e gli dice «Gosady, fratello, apri la cartina e trovami Tampa. Fatto? Bene. Mettici su un dito e tieni il segno. E adesso cerca la città più lontana che ci sia, senza uscire dagli Stati Uniti». Gosady si dà da fare e dopo un po' pronuncia solo una parola: Seattle. «Quella sulla Costa Occidentale?», domanda Ray. «Quella», risponde Gosady. «Bene - conclude Ray - Mi sa che presto riceverai una cartolina da lì. Molto, molto presto.» Dopo di che, tutto solo, cieco com'è, Ray Charles si mette in viaggio. Tre giorni e tre notti, confinato su un sedile in fondo al pullman della Greyhound. Come un commesso viaggiatore. Peggio di un commesso viaggiatore.
P.S. Prendete tutto con beneficio d'inventario. Sono solo ricordi pescati nella memoria senza mettersi a controllare per filo e per segno. Raccontati come se fossimo sul posto di lavoro, o nei dintorni, durante la pausa per il pranzo. E adesso rimane ancora un po' di tempo, prima di rientrare.
Qualcuno si sta accendendo una sigaretta. Un altro sta pensando che a casa deve avere ancora una cassetta dei Clash di Sandinista, da qualche parte. E quello laggiù, il più giovane del gruppo, si dice che in fondo ha appena 19 anni. E che la band in cui suona nel tempo libero non è affatto male. E che il lavoro duro non lo spaventa. No davvero.
Federico Zamboni

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