domenica 1 maggio 2011

Le mani dell'artiere antidoto alla noia e all'alienazione (di Annalisa Terranova)

Articolo di Annalisa Terranova
Dal Secolo d'Italia di domenica 1 maggio 2011
Ci sono i lavori e ci sono i mestieri. I primi tendono alla routine, i secondi presuppongono un'arte da trasmettere, da valorizzare e trasformare nel tempo. I primi inducono alla standardizzazione e producono alienazione. I secondi sono fonte di crescita individuale e danno un'impronta culturale alle civiltà. Potremmo fermarci qui accostandoci alla celebrazione del 1° maggio, per sottolineare ancora una volta la ricchezza multiforme della manualità che in Italia caratterizza l'artigianato dando spessore alla figura dell'artiere, celebrato in una mostra a Torino dal Comitato Italia 150 con un titolo che è già un programma filosofico: "Il futuro nelle mani".

I lavori fatti ad arte hanno insomma un qualcosa di più, in termini estetici ma anche esistenziali: lo dimostra il successo del libro del filosofo-meccanico Matthew Crawford, Il lavoro manuale come medicina dell'anima, uscito nel 2009 e che rappresenta un inno alla concretezza e al superamento dell'alienazione attraverso il recupero della mano come "primo utensile" da valorizzare. E Crawford viene esplicitamente citato dai curatori della mostra, in collaborazione con il Miaao (Museo italiano arti applicate oggi), come sintomo di una cultura che tende al rilancio di un artigianato caratterizzato da una perizia anche "metalmeccanica". Con l'intento di dimostrare le positive prospettive creative, economiche e occupazionali dei lavori frutto dell'intelligenza della mano.
L'argomento della manualità, della sua applicazione alla tecnica e della sua importanza nella storia evolutiva, è stato trattato da storici e antropologi cui si deve l'acquisizione di un principio basilare per il recupero del lavoro come arte: la mano costituisce relazioni con il mondo, lo trasforma, lo interpreta e spesso lo domina. La mano resta in ogni caso il primo motore, la scintilla originaria che pone la pietra su cui si edifica ogni civiltà. Scriveva André Leroi-Gourhan che è l'avvio della manipolazione a rendere il primate homo sapiens. L'uso della mano per fabbricare è una tappa di un processo non solo evolutivo ma di liberazione. L'uomo pensa al potere infinito che si sprigiona dalle sue mani e quel pensiero classifica e stratifica il gruppo sociale, lo organizza e lo mette in forma. E oggi? Lo studioso si interrogava già decenni fa sulla "regressione della mano". «La mano - scrive ne Il gesto e la parola - in origine era un pinza, per tenere i sassi, il trionfo dell'uomo è stato di trasformarla nell'esecutrice sempre più abile delle sue idee di fabbricatore». Ma se la mano diventa inutile in una fase di tecnicità "demanualizzata" si pone un problema perché «non avere da pensare con le proprie dita equivale a fare a meno di una parte del pensiero umano». Come reagirà l'essere umano a una forma di vita che elimina l'operosità della mano? E dunque Leroi-Gourhan anticipava già mezzo secolo fa il destino dell'uomo privato della forza creativa della manualità: «Liberato dai suoi utensili, dai suoi gesti, dai suoi muscoli, dalla programmazione dei suoi atti, dalla sua memoria, liberato dalla sua immaginazione per la perfezione dei mezzi telediffusi, liberato dal mondo animale, vegetale, dal vento, dal freddo, dai microbi, da ciò che è ignoto delle montagne e dei mari, l'homo sapiens della zoologia è probabilmente vicino alla fine della sua carriera. Fisicamente, è una specie zoologica che dispone di un certo avvenire; considerato il ritmo al quale si è evoluto da trentamila anni, sembra avere almeno una prospettiva altrettanto lunga davanti a sé … Il grande problema del mondo, già attuale, è questo: come potrà questo mammifero ormai desueto, con bisogni arcaici che sono stati il motore di tutta la sua ascesa, continuare a spingere il suo masso su per il pendio, se un giorno gli resterà solo l'immagine della sua realtà?».
Ecco che il lavoro manuale, ecco che l'artiere, l'artigiano creativo, può diventare allora strumento consapevole di ulteriore evoluzione o porre freno a una decadenza denunciata ad esempio da Pierre Drieu La Rochelle nel suo Appunti per comprendere il secolo: «Le nostre povere mani pendono morte ai nostri fianchi. Come volete che nascano ancora dei pittori, quando le mani sono morte?». Un destino che può essere ribaltato, che non appare necessariamente ineluttabile se torniamo a riflettere sull'importanza di un lavoro "a misura delle nostre mani". E così si torna a Crawford e al suo libro-manifesto: ciascuno di noi, avverte l'autore, può diventare un'impresa "creativa" anche con l'alleanza consapevole della scuola che dovrebbe reintrodurre l'insegnamento di falegnameria, carpenteria, tessitura, elettricità. Così la svolta filosofica di Crawford veniva descritta da Massimo Gaggi sul Corriere della sera del 20 giugno 2009: «Un curioso personaggio che ha cominciato la sua carriera come fisico in California, si è innamorato della filosofia conseguendo un'altra laurea e un PhD a Chicago, è andato a fare l'analista in un think tank di Washington, ha perso ben presto l'interesse per il suo lavoro irritato dalla sua mancanza di concretezza e si è messo ad aggiustare motociclette. Oggi vive felicemente a Richmond dove gestisce un'officina di riparazioni meccaniche e insegna alla University of Virginia».
Impossibile non pensare a Robert Pirsig e al suo Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, libro-cult dei giovani degli anni Settanta, in cui si ragiona di Platone e Aristotele in parallelo alla "qualità del fare" che si sprigiona dalla cura della motocicletta, una cura paziente, minuziosa, che è anche addestramento dell'anima, che richiede il tempo per il ritocco perfezionante, proprio come se ci trovassimo alle prese con l'ikebana, l'arte di comporre i fiori. Pirsig nelle sue pagine evitava di demonizzare la tecnologia: quest'ultima è infatti nociva agli uomini solo se li alleva nell'indifferenza, solo se trasmette nelle menti il dualismo dell'oggettività. È qui che il lavoro manuale si inserisce per rimettere in relazione umanità e realtà; è così che la mano torna a costruire relazioni significative. «Qualsiasi lavoro tu faccia - scrive Pirsig - se trasformi in arte ciò che stai facendo, con ogni probabilità scoprirai di essere divenuto per gli altri una persona interessante e non un oggetto. Questo perché le tue decisioni, tenendo conto della Qualità, cambiano anche te. Meglio: non solo cambiano te e il lavoro, ma cambiano anche gli altri, perché la Qualità è come un'onda. Quel lavoro di Qualità che pensavi nessuno avrebbe notato viene notato eccome, e chi lo vede si sente un pochino meglio: probabilmente trasferirà negli altri questa sua sensazione e in questo modo la Qualità continuerà a diffondersi». E ancora Pirsig introduceva il concetto di personalità applicata al lavoro capace di decostruire l'assetto soffocante della collettivizzazione: «La vera motocicletta a cui state lavorando è una moto che si chiama voi stessi. La macchina che sembra ‘là fuori' e la persona che sembra ‘qui dentro' non sono separate. Crescono insieme verso la Qualità e insieme se ne allontanano». La qualità di cui qui si parla è molto simile a ciò che noi chiameremmo i "segreti del mestiere". Continua infatti Pirsig: «Esiste il cosiddetto ‘tocco del meccanico', una cosa ovvia per chi sa cos'è, ma difficile da descrivere a chi non lo sa; comunque veder lavorare su una macchina qualcuno che non ce l'ha è una vera sofferenza. Il tocco del meccanico nasce da una profonda sensibilità cinestetica all'elasticità dei materiali. Alcuni materiali, come la ceramica, ne hanno pochissima, per cui maneggiando una parte di ceramica si fa molta attenzione a non esercitare troppa pressione. Altri materiali, come l'acciaio, hanno un'elasticità incredibile, superiore a quella della gomma, ma essa è evidente soltanto quando si impiegano forze meccaniche di grande intensità. Le viti e i bulloni, per esempio, esercitano forze di grande intensità… Il tocco del meccanico implica la capacità di capire non solo l'elasticità del metallo, ma anche la sua morbidezza». È questo addestramento all'uso sapiente della mano, correlata col pensiero, a far superare l'oggettività di un mondo della tecnica avvertito come estraneo e a volte come nemico. È questo sapere interiore che determina entusiasmo al posto della noia e che può assegnare nuovamente al lavoro, al mestiere, una funzione di elevazione e di formazione, inserendolo in una cornice nuova oltre le teorizzazioni sui conflitti di classe e oltre i rischi dell'epoca globale.
Qualità e recupero del fare, qualità e recupero della manualità, qualità e rivalutazione del lavoro per sé e per gli altri sono tutte vie che coincidono in un'unica grande missione, quella indicata nel secolo scorso da William Morris: «Rendere grate agli uomini le cose che di necessità debbono usare è uno dei grandi uffici della decorazione; rendere grate agli uomini le cose che di necessità devono fare è l'altro grande ufficio di essa». Tutto questo stava a significare che il lavoro artigianale è anche gioia della creazione, rimedio al divorzio tra lavoro e arte che rende "infelice" la maggioranza degli esseri umani. Secondo Morris lo spettacolo offerto dal "sistema competitivo" della produzione costituiva una minaccia per gli uomini e per la civiltà. Di qui il rafforzarsi in lui di una convinzione utopistica ma oggi quanto mai attuale: riavvicinare la figura del lavoratore a quella dell'artista. «C'è stato un tempo - scriveva - in cui il mistero e il miracolo della produzione manuale erano riconosciuti in tutto il mondo, il tempo in cui l'immaginazione e la fantasia si mescolavano a tutte le cose create dall'uomo, e allora tutti gli artigiani erano artisti…».
Sarebbe interessante recuperare al 1° maggio anche questo significato superiore, quello di aprire una feconda riflessione sulla necessità di riunire in modo innovativo arte, industria e lavoro. Una sfida che è anche sfida culturale, l'unica possibile, a quel filone del pensiero tragico che vede nella tecnica un'intima anima demoniaca che indirizza l'intera umanità verso la rovina. «La tecnica delle macchine finisce con l'uomo faustiano - scriveva Oswald Spengler - sarà logorata e consumata dall'interno». Una visione in cui non c'era spazio per l'ottimismo e non si intravedevano vie di salvezza: le città e i grattacieli erano condannati alla distruzione come Babilonia. Un orizzonte che può essere esorcizzato dal richiamo plurimillenario all'opera di redenzione della mano, primo utensile da valorizzare.
Annalisa Terranova

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