Da il Fondo magazine del 16 maggio 2011
I fumetti possono essere diseducativi, eccome! Non perché – come scrisse un milione di anni fa Nilde Iotti su Rinascita – allontanino i più giovani da “altre” letture, provocando così «irrequietezza, scarsa riflessività, deficiente contatto con il mondo circostante e quindi tendenza alla violenza, alla brutalità, all’avventura fuori dalla legge».
Semmai per il motivo contrario: perché certe nuvole parlanti possono alimentare conformismo e luoghi comuni, adesione acritica al mondo circostante (per fare il verso alle parole dell’esponente comunista) e ai suoi modelli e finire con il ricondurre in categorie delineate quanto rassicuranti la complessità della società. Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. E indovinate chi vince? I buoni, sempre loro. Un po’ come nei vecchi film western, quando “arrivavano i nostri” e non ce n’era più per nessuno. I selvaggi venivano spazzati via come mosche fastidiose. E poi selvaggi perché, visto che erano a casa loro? Si dava – si cercava di dare – per scontata la superiorità culturale dell’occidente e le tradizioni degli indiani venivano rappresentate (liquidate) come superstizioni. Quanti di noi sono stati culturalmente rovinati da quel suono di tromba e ancora oggi (come in un riflesso condizionato) applaudono indiscriminatamente ogni cavalcata dei “berretti verdi” perché – per l’appunto – “arrivano i nostri”?
Bestialità come l’esportazione della democrazia nascono anche da lì. Diseducativi quei film e diseducativo quello yankee di Topolino, uno irritante come pochi, uno che capisce tutto e prima degli altri, uno che – per dirla alla milanese – ghe pensi mi!. Uno che ci fa sentire tutti come Pippo, fuori luogo, inadeguati, malinconicamente ridotti al ruolo di spalla.
Lasciatecelo dire: noi tifavamo per l’antagonista, Pietro Gambadilegno, un perdente duro a morire, uno al quale autori crudeli avevano appioppato una donna come Trudy, brutta e sgradevole come una vera moglie. Mica una fighetta di legno come Minnie. Solo l’ipocrisia della Disney poteva privarlo, oltre che di una qualche (sia pure episodica) vittoria, persino di quella fascinosa e piratesca gamba di legno, vero e proprio segno distintivo nell’appiattimento della normalità. Urtava la sensibilità dei veri disabili, ebbero a giustificarsi.
Ampia premessa, la nostra, per festeggiare un “compleanno” che rischia di passare sotto silenzio. Quello della Banda Bassotti, che questo maggio festeggia sessant’anni di vita. Sì, perché la prima apparizione – in Paperino e la banda dei segugi – data 5 maggio 1951. Da allora e per oltre mezzo secolo la sgangherata banda di ladri creata da Carl Barks (Beagle Boys nella versione originale) non ha fatto altro che tentare e ritentare e ritentate ancora, con cocciuta perseveranza, di scassinare la cassaforte di Paperon de Paperoni, il famigerato deposito che domina la collina più alta di Paperopoli.
Quale migliore metafora per rappresentare la lotta contro il potere, il vero e unico potere, non quello politico ma il grande capitale che muove tutti i fili? Paperon de Paperoni, del resto, altri non è che il classico capitalista non illuminato: alla ricerca spregiudicata del profitto è pronto a passare sopra a tutto e tutti, truffando quando è possibile, speculando senza alcuno scrupolo morale, sfruttando i lavoratori e sottopagandoli. Fossero anche parenti senza arte né parte, niente e nessuno può intenerirlo. Il povero Paperino, a tal proposito, ne sa qualcosa. Come tutti i precari, è ricattabile e, in quanto tale, deve piegarsi alle richieste più stravaganti. Sui giovani, poi, c’è poco da confidare. Qui, Quo e Qua si dilettano con le giovani marmotte e amenità del genere. Quando lo zietto chiama, corrono senza porsi il minimo problema, mostrando una preoccupante incapacità di indignarsi e di reagire con un pur minimo desiderio di rivolta alle palesi ingiustizie sociali.
Gli unici disponibili a indossare lo scomodo abito dei cattivi e a combattere una lotta che, nei prevedibili schemi disneyani, appare in tutta evidenza impari, sono loro: la Banda Bassotti.
Destinati allo sconfitta e, peggio, al ridicolo, si muovono di tavola in tavola con estrema dignità e, malgrado la scarsezza dei mezzi a disposizione – vivono nell’indigenza: in una baracca di legno e altre volte in una roulotte – riescono quantomeno a rendere agitati i sonni di zio Paperone. Risultato che gli antagonisti di carne e ossa, di sinistra come di destra, non riescono neanche lontanamente a cogliere, perché i padroni del mondo dormono sonni tranquilli e, se raramente incorrono in un incubo, è per ragioni del tutto estranee e indifferenti a ogni forma residuale di opposizione.
Celebriamoli, pertanto, questi campioni senza nome (a parte il riconoscibile Nonno Bassotto) e individuabili solo dal numero di matricola carceraria impresso sulla targhetta gialla della divisa rossa del penitenziario di Sing Song: 176, seguito dalle stesse cifre in ordine diverso, come in un anagramma. In quanto cattivi, ovviamente, non potevano che essere brutti e i disegnatori americani ci si sono messi d’impegno, raffigurandoli anonimi, tarchiati e sgradevoli, mentre i loro colleghi italiani (in particolare Cavazzano) li hanno resi più “presentabili”, sia pure con l’immancabile barba di due giorni e qualche chilo di troppo. Il che non ce li rende antipatici, al contrario più facilmente scatta l’immedesimazione.
Non avranno messo le mani sul tesoro di zio Paperone, stimato per un valore di almeno 2000 miliardi di dollari, ma almeno hanno dato e danno rappresentanza a tutti coloro che, irriducibilmente, non troveranno mai normale e soprattutto accettabile che tutto il potere – la pecunia – rimanga concentrata nelle mani di uno. Convinti come siamo che, sia pure nella finzione di un fumetto popolare rivolto ai bambini, debba esserci qualcuno che (ogni tanto) dica no.
Lunga vita, pertanto, alla Banda Bassotti e boia chi molla!
Roberto Alfatti Appetiti
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