martedì 24 maggio 2011

L'irriverenza nel tennis ha il nome di Agassi: in "Open" racconta come il campione battè il drago

Dal Secolo d'Italia del 24 maggio 2011
«Il drago respira, ha un cervello, una volontà, un cuore nero e una voce terrificante». Sono tanti i bambini che si sono trovati ad affrontare un drago nei loro incubi. Più raro è trovarselo davanti ogni giorno, costruito da tuo padre: «Nero come la pece, montato su grosse ruote di gomma e con la parola “prince” dipinta in bianche lettere maiuscole lungo la base».

Un drago che non lancia fiamme ma palle, eppure non meno spaventoso. «Ogni volta che risucchia una palla nel proprio ventre, il drago emette un ruggito di belva assetata di sangue che mi fa sobbalzare. Poi punta su di me e spara una palla a 180 chilometri all’ora». 2500 palle al giorno, 17.500 alla settimana, un milione all’anno.
Quel bambino di cinque anni, “condannato” a diventare il campione di tennis più popolare degli ultimi trent’anni, è Andre Agassi, e il drago altro non è che una macchina lanciapalle come ce ne sono in ogni circolo sportivo americano. Lo sarebbe, se il padre non l’avesse modificata per renderla più terrificante.
«Vuole che batta il drago, ma come si fa a battere qualcuno che non si ferma mai? A ben pensare, il drago assomiglia a mio padre. Solo che papà è peggio. Per lo meno il drago ce l’ho davanti, dove posso vederlo. Mio padre invece mi sta alle spalle. Non lo vedo mai, lo sento soltanto, giorno e notte, che mi urla nelle orecchie. Colpiscila forte, colpiscila prima».
Per la prima volta «il guerriero con la racchetta» confessa l’odio per il tennis in Open. La mia storia (Einaudi, pp. 502, € 20), l’autobiografia appena arrivata nelle nostre librerie e già al centro di numerose polemiche per la schiettezza di questo campione di irriverenza che non si fa problemi a prendere il mondo a pallate e a dissacrare tradizioni e templi del tennis mondiale. Wimbledon? «Non è in erba, è ghiaccio impiastricciato di vasellina». Roland Garros? «Un posto assurdo che puzza di sigaro e pipa». Niente è paragonabile all’amato cemento americano da cui proviene. Lui, del resto, è abituato a tenere il centro della scena, oltre che del campo. Con i capelli lunghi e colorati o perfettamente rasato. Gli occhi truccati con la matita e gli orecchini per far arrabbiare il padre omofobo. L’indole da ribelle impenitente. Una rockstar – meglio: un punk – prima ancora che un atleta, capace di confessare candidamente di aver fatto uso di metanfetamine, provocando le moralistiche quanto ipocrite condanne di tanti colleghi.
Stavolta, poi, si è spinto oltre, lanciando un velenoso j’accuse nei confronti del mondo del tennis a nome di tutti i forzati dello sport, specialmente di coloro che praticano questa disciplina solitaria, in assoluto una delle più massacranti. Può il talento diventare una tortura? L’essere salito in vetta al ranking mondiale e aver vinto, unico in assoluto, tutte e quattro le prove del Grande Slam, la medaglia d’oro del singolare olimpico e la Coppa Davis, ripaga una vita di rinunce, sacrifici e infortuni?
«Un vittoria – spiega Agassi – non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. È questo il piccolo ignobile segreto che a pochissimi al mondo è concesso sapere e che ho appreso dopo aver vinto uno Slam. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo, nemmeno lontanamente».
Una premessa: il libro – scritta in collaborazione con il giornalista e scrittore J. R. Moehringer – non è la solita biografia didascalica cucita su misura per i fans, ma una vera e propria opera letteraria dal contenuto spiazzante, proprio come dovrebbe essere un romanzo. Nelle prime pagine troviamo Agassi in albergo, costretto a dormire per terra per dare sollievo alla schiena dolorante. Eterno pendolare, quando si sveglia non sa neanche in quale città si trovi. L’unica certezza è che di lì a qualche ora dovrà giocare l’ennesimo mach degli oltre mille “combattuti” in vent’anni di professionismo. La narrazione procede per flashback attraverso cui appaiono i ricordi. Il campo da tennis costruito nel giardino di casa in cui «il kid di Las Vegas» ha trascorso ogni giorno della sua vita – «Il campo di tennis è l’ultimo posto dove vorrei stare al mondo» – sequestrato da quel padre inflessibile con gli allenamenti. L’adolescenza spesa nell’accademia di Nick Bollettieri in Florida, dalla quale scappa appena può. Le storie d’amore: dal flirt con Barbra Streisand (quasi trent’anni più di lui) al matrimonio con Brooke Shields, il divorzio e infine l’incontro con Steffi Graf. La donna della sua vita: forse perché anche lei ha avuto alle spalle un padre padrone e una vita rubata in cambio delle vittorie sul rettangolo di gioco.
Guardato con diffidenza dagli avversari per il suo anticonformismo – Ivan Lendl lo liquidò sprezzantemente come«un taglio di capelli e un dritto» – Agassi è riuscito a imporre il suo gioco e il suo stile, anche fuori dal campo. Tanto da farsi moda e fenomeno commerciale. « È bello sapere che se anche perdo il mio gioco, riesco a piazzare merce», scrive.
Nell’ultimo incontro agli US Open del 2006 – descritto nel finale – viene sconfitto rovinosamente dal semisconosciuto Benjamin Becker. Agassi scoppia a piangere prima di lanciare l’ultima palla e con lui si commuove il pubblico dell’Arthur Ashe Stadium, in piedi per rendergli onore. Un applauso lunghissimo, interminabile. Forse solo in quel momento il drago lanciapalle è stato sconfitto, definitivamente.
Roberto Alfatti Appetiti

1 commento:

dal caos la stella danzante ha detto...

Per uccidere il drago occorre il 'fuoco' (focus ed entusiasmo - il 'dio dentro'). Agassi ha trovato un mentore (Tony Robbins) che lo ha attizzato e lo ha fatto di nuovo diventare un campione. Ma l'ultimo fuoco - quello che lo ha fatto diventare quello che è ora - è, forse, da ricercarsi nel 'ceppo' iniziale: quell'ur-humus (humus primordiale) iranico (e 'uranico' - sacro) che, ben prima (e più) dell'Islam, ha zarathustramente (in tutti i sensi) lasciato i germi nel suo animo.
"Quando l'allievo era pronto il maestro (Robbins) è apparso. Ma quando poi Agassi ha incontrato di nuovo il maestro (sempre lui, Tony), lo ha ucciso..."
Nicola Perchiazzi