domenica 26 giugno 2011

Céline, la damnatio memoriae in Francia dura ancora (di Annalisa Terranova)

Articolo di Annalisa Terranova
Dal Secolo d'Italia del 26 giugno 2011
La damnatio memoriae in Francia dura ancora. Il genio scomodo di Céline, benché apprezzato in tutta Europa, merita solo, a 50 anni dalla morte, reverenze pudibonde, celate, senza strombazzamenti (del resto il parroco rifiutò di benedirne la salma). E chissà che lui non avrebbe voluto così, quasi a preservare, ancora una volta, la sua libertà sminuzzata dai detrattori.
Céline, vero nome Louis Ferdinand Auguste Destouches, proveniva dalla piccolissima borghesia di provincia: era nato nel 1894 da un modesto impiegato e da una merlettaia. Ragazzino precoce, abituato ad arrangiarsi, autodidatta, a Parigi lavora come fattorino. Di notte se la spassa al cinema («la mia materia preferita, perpetuamente»). Allo scoppio della Grande Guerra si becca una ferita al timpano nella Fiandra occidentale e una medaglia al valore. Trasferito a Londra, ha una relazione con l'entreneuse Suzanne Germane Nebout, sposata nel 1916. Ma fu "un errore di gioventù". Segue un soggiorno nelle colonie francesi dell'Africa, dove è divorato dall'enterite cronica. Tornato a Parigi, si appassiona di medicina, convinto che «il pensiero medico, così bello, così generoso, sia l'unico pensiero veramente umano che forse esista al mondo». Consegue la laurea a Rennes, nel 1923, con una tesi intitolata Vita e opere di Philippe Ignace Semmelweis. Lo scritto, più letterario che scientifico, è dedicato al medico ungherese ebreo scopritore delle cause virali dell'infezione delle puerpere, ripagato per la sua genialità dal mondo accademico con derisioni e incomprensione. Scritto profetico su quella che sarebbe stata la sorte dello stesso Céline.
Nel frattempo ha sposato Edith Follet, da cui si separa nel 1925: «Non voglio trascinarti piagnucolosa e brontolona appresso a me...». Troncare, recidere. Non desidera fare carriera ma vuole la libertà. Eccolo quindi in missione, per conto della Società delle Nazioni, a Cuba e negli Stati Uniti e poi a convivere con la danzatrice Elizabeth a Montmartre, dove finisce di scrivere il suo Viaggio al termine della notte («quattro ore di fatica al giorno per cinque anni»), pubblicato nel 1932 e accolto dai metaforici applausi di Jünger, Sartre, Bataille, Miller... Kerouac dopo averlo letto smise di leggere gli autori europei «perché non si poteva andare oltre». Il romanzo rivoluziona il modo di scrivere e rompe tutti gli schemi narrativi tramandati. «Libro antimilitarista - scrive Stefano Lanuzza nel suo Maledetto Céline. Un manuale del caos - anticolonialista, anarchico, nichilista, il Viaggio, viaggio in fondo alla notte e alla notte della vita, è una fenomenologia narrativa, il drammatico manuale di quel caos che, nell'Europa di primonovecento, sembra avvolgere l'umano consesso». Stranamente, da un libro così ammirato, non è stato ancora tratto un film. Ne parla nel suo Pane e cinema lo sceneggiatore e autore teatrale Luciano Vincenzoni: «Viaggio al termine della notte è stato il sogno di tanti registi, lo avrebbero voluto realizzare Renoir, Carné, Clément e alla fine anche Sergio Leone, che aveva visto la copia del romanzo sul mio tavolo. Mi chiese cosa ne pensassi per un film. Gli comunicai tutto il mio entusiasmo. Lo lesse e andò in Francia con l'intenzione di realizzarlo. Non è successo, pazienza. Prima o poi qualcuno realizzerà il film».
Nel 1935 Céline lascia Parigi per gli Stati Uniti dove si innamora della ballerina Lucette Almanzor, che gli resterà accanto fino alla fine, il 1 luglio del 1961. «L'ho amato e sposato - dirà Lucette di lui - anche se aveva vent'anni più di me e non sapevo che avrei trascorso metà della mia esistenza senza di lui. Era un uomo diperato, di un pessimismo totale, ma che al contempo mi dava una forza incredibile. C'era in lui una tale tristezza che tutti lo sfuggivano». Per le ballerine Céline aveva del resto una predilezione quasi allucinata: «In una gamba di ballerina riposano il mondo, le sue onde, tutti i suoi ritmi, le sue follie, i suoi desideri!... Mai scritti!... La poesia più ricca di sfumature del mondo!... Il poema inaudito, caldo e fragile come una gamba di ballerina in mobile equilibrio è in sintonia con l'ascolto del più grande segreto, è Dio!».
Nel 1936 soggiorna nella Russia postrivoluzionaria e ne trae un sovrano disgusto per il comunismo realizzato, che gli ispira il libro Mea culpa, e la conclusione di essere "totalmente anarchico". L'anticomunismo di Céline, spiega Paul Sérant nel suo Romanticismo fascista, «non è fondato soltanto su ciò che egli ha visto in Russia, ciò che denuncia è che il comunismo rappresenta la conclusione logica di un mondo esclusivamente materalista». A dimostrazione del suo appunto Sérant cita un passo di Mea culpa: «In due secoli, folle d'orgoglio, gonfiato dalla meccanica, l'uomo è diventato insopportabile. Tale noi lo vediamo oggi, tronfio, saturo, ubriaco d'alcool e di benzina, strafottente, pretenzioso, persuaso che l'universo sia ai suoi piedi. Sbandato, smisurato, irrimediabile, misto di montone e toro, nonché di iena. Davvero simpatico. Il più umile buco di culo tappato, nello specchio si prende per Giove, ecco il gran miracolo moderno». Allo scoppio della guerra, le illusioni pacifiste di Céline si infrangono su uno scenario di fumo, morte e disperazione. Radio Londra lo bolla come collaboratore dei nazisti, ma le SS lo giudicano un idolo della stampa ebraica e di sinistra. In Germania le sue opere sono proibite anche se sul suo Bagattelle si accaniscono «tutte le specie di avvoltoi». Scomoda posizione, quella dello scrittore anarchico: per lui se il bolscevismo è la peste, il nazionalsocialismo è il colera.
Quando in Europa tutto crolla è esule in Danimarca: «Sono povero, non ho più niente, mi hanno predato tutto, le decorazioni, le pensioni da mutilato, i diplomi di medico, i libri, tutto...». Arrestato per collaborazionismo, trascorre 14 mesi nel carcere di Vesterfangsel, da dove si consola scrivendo a Lucette: «Ti amo talmente piccola mia che posso sopportare tutto, tutto tollerare e pazientare. Sono sempre con te. Non mi resti più che te. Ma curati, non essere troppo triste, mangia bene cerca di danzare. Questo mi dà forza. Sai quanto amo quel che fai...».
Tornato in libertà nel 1947 lo troviamo medico a Meudon, nel tempo libero cura i suoi cani e i suoi gatti: «Io resto un disarmato bastiancontrario ridotto a capro espiatorio delle colpe dei governi e degli schieramenti, dei nazifascismi e dei comunismi stalinisti o fascismi rossi». Lui, il Céline pacifista che odia la guerra stupida e dannosa: «I miei libri giudicati violenti sono, invece, contro la violenza». I suoi pazienti sono di ceto miserabile, sporchi e afflitti, decide di non farsi pagare: «Un medico senza cameriera, senza donna di servizio, senza automobile... e che per giunta scrive libri! E che è stato in prigione, pensate un po'...».
Si divide tra le cure ai proletari e la letteratura: «Scrivo come posso, quando posso, dove posso. Scrivo in fretta e furia, come sono sempre vissuto: in fretta e furia. Li ho fatti così gli studi, sempre strappando ore ai miei giri quotidiani; ho steso così i miei grossi libri, donde indubbiamente il loro tono trafelato ansante...». Nella sua scrittura libera è il succo della sua dignità: «Orgoglioso come trentasei pavoni, non traverserei la strada per raccogliere un milione caduto nel fango».
Paul Sérant si è chiesto se la divisione tra destra e sinistra abbia mai avuto senso per Céline: «Allorché pubblicò i suoi prodigiosi romanzi, gli scrittori di sinistra l'esaltarono entusiasticamente come uno di loro. Poi lo sconfessarono quando denunciò, nei termini più aspri, la realtà sovietica a seguito di un viaggio in Russia. Infine, i libelli antisemiti di Louis Ferdinand Céline gli procurarono la taccia di fascista. Se Céline, a partire dal 1936, appare a qualcuno come uno scrittore di estrema destra, ciò è accaduto in virtù di un grosso malinteso. Sostanzialmente, Céline è un anarchico, troppo scettico però per esrecitare un'azione anarchica metodica». Però sa che l'aspirazione del proletario non è la rivoluzione ma l'ingresso nella categoria dei borghesi, detesta la retorica degli oppressi e del popolo: «Il Popolo è un vero e proprio Museo di tutte le cretinerie dei Secoli, ingoia tutto, ammira tutto, conserva tutto, difende tuttto, non capisce niente». Disprezza i giochi del parlamentarismo, dove si trovano a loro agio le «cacature d'eunuchi»: «Banda di mendicanti chiacchieroni! Vigliacchi furbacchioni! sacchi e corde! parassiti! mascalzoni! beoni in alto il cuore! balordi! cacche! larve da osteria! inutili! bollosi vizzi! Oh che marmaglia, questi fetentoni...».
La destra lo ha coccolato in quanto icona della rivolta spiritualista contro la decadenza materalistica, in quanto megafono della derisione del verbo progressista: «Mi avvedo che l'uomo è diventato più inquieto in quanto ha perduto il gusto delle favole, del favoloso, delle leggende, inquieto fino all'urlo, in quanto adula, venera l'esatto, il prosaico, il cronometro, il ponderabile. Ciò non s'addice alla sua natura. Impazzisce, pur restando lo stesso imbecille di sempre...».
Sua moglie racconta così i suoi ultimi giorni: «Girava vestito con una palandrana tenuta su con una corda; era una specie di pulcinella che metteva, perché negarlo, un po' di paura. Ormai, quasi non mangiava più. Saltava a piè pari pranzi e cene; aveva solo una grande passione per i croissant. La sua vita, le sue ultime energie, le spendeva tutte nel lavoro. Scriveva nelle poche ore mattutine in cui non lo affliggevano le emicranie sempre più forti. Poi la sera mi chiamava per leggermi quanto aveva buttato giù. Declamava forte. A scatti, spezzando le frasi. Ma non era mai contento di quello che faceva. Riscriveva dieci, venti volte lo stesso capitolo. Sempre alla ricerca del perfetto ritmo musicale... Ma le sue crisi si fecero sempre più violente e ravvicinate, finché arrivò quella definitiva, il 1 luglio del 1961. Aveva appena finito di scrivere Rigodon». Il titolo è quello di un ballo, suggerito da Lucette. Quest'ultima opera - annota Stefano Lanuzza - finisce con la visione apocalittica della Francia «ridotta a una Bisanzio invasa dai turchi o a un mondo di ombre percorso dalle dilaganti moltitudini di cinesi famelici già evocate nell'intervista sull'Express del 14 giugno 1957: ‘Ai cinesi basterà farsi avanti, armi in pugno. A loro vantaggio hanno l'idra vivente della natalità. Voi sparirete, voi razza bianca. Nel mondo giallo sparirà tutto, antropologicamente parlando'. Da cui l'arresa conclusione, il cupio dissolvi di Rigodon: "Non esiste più niente"». Ancora una volta disperatamente profetico.
Annalisa Terranova

Nessun commento: