martedì 14 giugno 2011

Chi salverà il calcio? Gli ultras

Dal Secolo d'Italia del 14 giugno 2011
«Il mondo del calcio mi ha deluso e disgustato». A “scendere in campo”, nel fine settimana, è stato Roberto Maroni: da tifoso amareggiato ed «ex terzinaccio che correva correva e basta» ma anche e soprattutto da ministro dell’Interno.
L’annunciata l’unità investigativa – che avrà il compito di combattere le combine legate alle scommesse sportive – dovrebbe riunirsi già nei prossimi giorni. Una task-force cui parteciperanno rappresentanti del Viminale, del mondo dello sport e del ministero dell’Economia e che, grazie al supporto delle forze dell’ordine, svolgerà indagini, punirà i colpevoli e costituirà un deterrente a futura memoria. Tolleranza zero. «Chi sgarra – sottolinea Maroni – sa che non avrà a che fare soltanto con le sanzioni sportive e comunque non si limiterà alla squalifica, ma alla radiazione, all’espulsione a vita». Non solo: il ministro proporrà all’Ue la creazione di «un network che controlli il movimento delle scommesse».
Nel frattempo il pressing degli inquirenti va avanti in cerca di ulteriori prove, testimonianze e riscontri. Questa settimana e la prossima potrebbero risultare determinanti per verificare se lo scandalo è destinato a travolgere anche la serie A o a rimanere confinato tra B e Lega Pro. Per accertare se si tratta semplicemente delle millanterie di un gruppo di scommettitori che – ignorando l’amaro destino del “giocatore” di Fedor Dostoevskij – non sapevano come il demone del gioco d’azzardo conduca inevitabilmente alla rovina, o se calciatori o addirittura società sportive sono coinvolte.
Una cosa è certa: se la giustizia ordinaria, come da consolidata prassi, si prenderà i suoi tempi, la procura federale ha fretta di chiudere entro la fine di luglio. I calendari del prossimo campionato vanno stilati tempestivamente e, come suol dirsi, lo spettacolo deve andare avanti. Dovrebbe, almeno. A minacciare di spegnere i riflettori – almeno quelli televisivi – è Tom Mockridge, amministratore italiano di Sky Italia. «Chi ha in mano le sorti e il futuro di questo sport – ha tuonato nei giorni scorsi – deve dare un serio e inequivocabile segnale di discontinuità rispetto al passato. Solo così un partner come Sky potrà continuare a garantire ai suoi telespettatori lo spettacolo del calcio e grazie ai milioni di famiglie nostre abbonate, assicurare al calcio italiano i due terzi dei suoi introiti complessivi». Ovvero: o eliminate il marcio o noi (Sky) eliminiamo il calcio dal piccolo schermo e i soldi dei diritti tv potete scordarveli.
Il calcio, del resto, è cosa loro, acquistato a suon di euro e servito direttamente a casa. L’abbraccio, nel nome del business, tra calendari e palinsesti ha spalmato l’offerta calcistico-televisiva tra anticipi, posticipi, recuperi e coppe straniere su tre, quattro e a volte persino cinque giornate in un’unica settimana. Contribuendo a svuotare gli stadi e sottraendo al calcio quelle peculiarità che ne rappresentavano la ricchezza: il carattere rituale, mitico, simbolico e – perché no? – anche identitario. Perché il calcio, prima ancora di essere uno spettacolo, è (era?) una liturgia, un motivo di aggregazione autenticamente interclassista e un rito collettivo che si alimenta di passione. È allo stadio che avviene quel rimescolamento sociale in grado di avvicinare, o meglio stringere, in un’unica appartenenza persone di estrazione diversa. Almeno fino a qualche tempo fa, quando sulle gradinate potevi trovare l’imprenditore e il suo operaio uno accanto all’altro: lasciando a casa le rispettive uniformi per indossare quelle del tifoso. Aspetti di vita comunitari cancellati dalla politica degli abbonamenti e dal lievitare dei prezzi: poveri in curva, al più nei distinti, e ricchi nelle tribune, rigorosamente ordinate per censo. Chi può permetterselo, infine, acquista direttamente il pacchetto full optional di Sky con tanto di visita guidata negli spogliatoi.
«Questo calcio pulitino, televisivo, asettico è certamente politically correct e, soprattutto economically correct – ha scritto Massimo Fini – ma il risultato è che quanto in esso vi è di più concretamente umano è stato sacrificato all’astrazione-denaro. Al loro posto resta la vuota forma della partita che domani potrebbe anche diventare, come tutto il resto, virtuale. Una PlayStation. Una perfetta simulazione, senza possibilità di errore, sull’iPad».
L’unica “resistenza” alla virtualizzazione del calcio, paradossalmente, è affidata agli ultras. Proprio a loro, ai brutti, sporchi e cattivi accusati, il più delle volte a sproposito, di danneggiarne l’immagine con i loro modi poco urbani. E invece bisognerebbe ringraziarli, i ragazzi che al telecomando e alle stucchevoli polemiche televisive del dopopartita, preferiscono l’odore dello stadio, il freddo e il caldo di stadi spesso piccoli e inospitali, che fanno sacrifici durante la settimana e poi sopportano le lunghe ore in autobus delle trasferte per andare a incitare i loro campioni. Campioni-simbolo, che in alcuni rari casi hanno speso sudore e talento in una sola squadra, spesso rinunciando al miraggio di ingaggi milionari in formazioni più prestigiose per legarsi a una bandiera. Giocatori come Totti, Del Piero e… Doni. In duemila, lo scorso 9 giugno, a Bergamo sono scesi dalla curva in piazza per sostenere l’Atalanta e per urlare l’innocenza del loro capitano Cristiano Doni. «Basta fango», hanno chiesto. Forse ha ragione Gigi Buffon: la nostra è ancora l’Italia di piazzale Loreto. Né linciaggi né assoluzioni, però. Si faccia giustizia. Non perché la chiede Tom Mockridge ma perché la chiedono migliaia e migliaia di ragazzi che non hanno alcuna intenzione di lasciare che pochi disonesti finiscano per seppellire un calcio malato.
Roberto Alfatti Appetiti

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