venerdì 24 giugno 2011

Quei giorni passati a rincorrere il vento...

I cantautori hanno osservato la nostra epoca dal palco.
Ora la raccontano sulle pagine
Da Area di giugno 2011
Forse perché lo stereotipo della rockstar è – per dirla con Sting – «noioso e stupido». Forse per dimostrare che P. J. Harvey parlava a titolo personale nel confessare che ha iniziato a suonare perché non riusciva a parlare. Forse per naturale evoluzione della specie, da un po’ di tempo a questa parte i nostri cantautori – messi momentaneamente a riposo gli strumenti – hanno iniziato a mettere su carta le loro storie, individuali ma generazionali al tempo stesso. Senza limitarsi a commissionare ad altri o a confezionarsi da sé una bella autobiografia, meglio se per immagini, ancor più se con titoli e didascalie accattivanti ad usum delphini. Ma attraverso lo strumento – ambizioso e tutt’altro che facile – del romanzo, della narrazione. Inevitabilmente sociale. Con risultati sorprendenti.  
Accanto alla storia polverosa dei manuali, quella con la esse maiuscola, troppo spesso mera sedimentazione di date e avvenimenti nel famigerato ordine cronologico, spuntano così in libreria tante piccole storie che, insieme, compongono la musica della (nostra) vita e ci restituiscono pezzi di immaginario condiviso, solitamente affidati alle suggestioni di breve durata di una canzone.
L’ultimo a misurarsi col romanzo – Il regno animale (Strade Blu di Mondadori) – è un debuttante di successo: Francesco Bianconi. Svestiti i panni di compositore e frontman dei Baustelle, ha indossato quelli di novello Bianciardi. Se quest’ultimo ne La vita agra del 1962 rivolgeva il suo j’accuse contro Milano, simbolo di un “miracolo economico” pieno di aspettative ma anche foriero di cattivi presagi, la città meneghina tratteggiata da Bianconi a distanza di mezzo secolo non appare molto diversa, sempre più condannata all’incomunicabilità: «Le loro vite sprecate (dei protagonisti, ndr) si toccano in una Milano che ha i colori di tutte le sfumature delle piume dei piccioni, in un mondo in cui sembra perduta ogni speranza di purezza». Entrambi i protagonisti – come gli autori, del resto – sono toscani ed arrivano a Milano animati da speranze destinate a essere deluse.
A farci fare un salto indietro di trent’anni e a riportarci negli Ottanta – «Anni “sfavillanti”, ma non per tutti», li definisce – è Enrico Ruggeri, che ha recentemente dato alle stampe Che giorno sarà (Kowalsky), il suo primo romanzo. Il protagonista è Francesco Ronchi, alter ego del nostro, sia pure meno “fortunato”. Perché sognava di diventare un cantante famoso ma la celebrità l’ha soltanto sfiorata. La storia, tuttavia, non si riduce a una vicenda individuale ma ci introduce – con stile brillante – nel sottobosco discografico di quel periodo: un ambiente popolato da finti rivoluzionari, personaggi sgangherati e arruffoni, discografici e giovani di belle speranze disposti a tutto pur di sfondare.
Sempre nel decennio in cui «l’Italia trovava la sua respirazione artificiale per resuscitare il vecchio buon umore», Sergio Caputo ha ambientato il suo (primo) romanzo: Disperatamente e in ritardo cane (Mondadori, 2008). «La storia, la nostra storia – spiega Max Paesani, il protagonista – si materializza sulle pagine solo man mano che la viviamo, un giorno dopo l’altro». Una sorta di «pellegrinaggio retroattivo» nella capitale, accompagnato dal linguaggio swing che tanto abbiamo amato nelle sue canzoni. Non ci vuole molto a capire che Max altri non è che lo stesso Sergio Caputo. Ex pop star di successo, da tempo stabilitosi in California, è tornato in Italia per una tournée, trovando il suo paese molto diverso da quello che aveva lasciato. Smarrito il passaporto, è costretto a rimanere a Roma trovandosi ad affrontare i ricordi, un presente di incertezze e un futuro da (ri)organizzare. Il racconto è godibilissimo ma il giudizio dell’autore romano sugli Ottanta è quanto mai severo: «anni in cui si passò dall’anticonformismo a un conformismo di segno diverso e non per questo meno fastidioso». Tutt’altro spirito, quello dei Settanta: «C’era musica dappertutto – scrive nel romanzo – e non solo nei locali, anche per la strada. La musica era il collante sociale di quegli anni controversi e difficili, pieni di conflitti ed equivoci culturali. Il più grosso dei quali era il modo in cui i miti della musica e della cultura americana riuscissero a convivere con un viscerale antiamericanismo, tendenza che per quanto mi riguarda era incomprensibile: tutti i miei idoli, da Charlie Parker a Jimi Hendrix, dai poeti beat a Andy Warhol, erano americani…».
Più indietro ancora ci trascina Mauro Pagani in Foto di gruppo con chitarrista (Rizzoli, 2009), musicista che ha atteso i sessant’anni di età per fare il suo debutto letterario. Il romanzo copre i dieci anni che vanno dal dicembre 1969, poco prima della strage di Piazza Fontana, fino al giorno dei funerali di Demetrio Stratos, il geniale cantante degli Area che il 13 giugno 1979 venne stroncato da un’aplasia midollare fulminante. La voce narrante è quella di Sonny, coetaneo “immaginario” di Mauro. Come lui è nato nell’immediato dopoguerra ed è anche lui lombardo, ha rotto i ponti con la famiglia e a poco più di vent’anni si è trasferito in una Milano che era ancora «una città splendida formata da case, tante case, dove ci potevi trovare dentro della gente fantastica». Animato dallo stesso entusiasmo. «Durato assai meno di quanto si credeva – dice Sonny – perché la curiosità per ciò che non si conosce si è affievolita. La primavera è stata, ancora una volta, nulla di più che una stagione passeggera». Pagani restituisce a quegli anni la complessità e la vitalità che vanno puntualmente smarrite nei giudizi sommari di chi liquida i Settanta come un lunghissimo tunnel che ostacola il passaggio dall’ottimismo ruspante dei Sessanta a quello rampante degli Ottanta.
Senza incedere nell’autocelebrazione tipica della memorialistica, Pagani ci fa scoprire dal di dentro le energie che hanno animato i Settanta prima che la violenza politica travolgesse ogni residuale creatività, stritolata da due varianti della stessa sete di potere: di qua il cinismo di chi lo deteneva già, di là la iattanza di chi mirava a conquistarlo.
Una “lettura” che nei manuali fa fatica ad approdare.
Roberto Alfatti Appetiti

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