giovedì 23 giugno 2011

Gianfranco Calligarich, la "sorpresa" di un celiniano inconsapevole... (di Mario Bernardi Guardi)

Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia del 23 giugno 2011
Lì per lì ti spiazza, quasi ti irrita. Perché dopo le provocazioni di rango di Céline che travolgeva e sconvolgeva i contenuti con la sua Musa furibonda e beffarda, smontando e rimontando la lingua, e inerpicandosi come più gli piaceva sulla grammatica, la sintassi, il lessico, la punteggiatura; dopo quel fasto dissacratorio, di sregolati di genio non ne abbiamo incontrati molti. 

Giocolieri, sì, funamboli, sì, illusionisti, sì, ma tanta spocchia e grandezza zero.
Ragion per cui, ammaestrati dall'esperienza, l'incipit di Privati abissi, romanzo di Gianfranco Calligarich, lo abbiamo letto con un bel po' di urtata diffidenza.
Eccolo: «Allora. Sarà forse il caso di dire perché ripensarla, questa storia. Bene, diciamo che la cosa si deve al lungo, disagevole viaggio fatto in macchina nella Capitale. Per dare il mio estremo arrivederci al vecchio Santandrea. Steso per scaduti termini di età nel suo cappotto di legno. All'ombra degli alberi pizzuti. Viaggio nel mio caso reso disagevole dai diuretici in sostegno del mio scompensato muscolo cardiaco. Per ritardarne il definitivo inchiodo. Notazione questa non così gratuita dato che infatti questo e niente altro alla fine si tratterà di ripensare. Al tenebroso muscolo che finché in moto pulsa ostinato nelle casse toraciche degli umani. Prima del suo estremo battito. Risolutivo».
Che scialo, ragazzi! A partire da quell'"Allora" seguito dal punto. Poi, il linguaggio spezzato, a farti sentire l'affanno. Il modo di esprimersi che evoca l'hard-boiled novel e il pulp: il "cappotto di legno", gli "alberi pizzuti", il "definitivo inchiodo". Il gioco che scombina le frasi fatte e trasforma il classico e lugubre "estremo addio" in un innovativo e quasi speranzoso "estremo arrivederci". Ovvio che, con una partenza del genere, al posto di "cuore" ci stia meglio "muscolo cardiaco", che i "petti" diventino "casse toraciche" e che la presunzione degli "uomini" di rappresentare chissà che cosa venga decisamente abbassata chiamandoli "umani".
Ma andiamo avanti: «Oltre che a pochi, antropologici dati di fatto registrabili durante la sua cieca, ostinata attività. Che niente a volte può essere più scardinante di quella oscura faccenda chiamata amore, che sempre gli umani si dividono in giocatori e no anche se non seduti a tavoli da gioco e che infine - nell'esistenza come a quei tavoli perdutamente verdi - ogni vittoria finisce per somigliarsi mentre le sconfitte sono sempre diverse l'una dall'altra. Per cui, se proprio si vuole, solo le sconfitte vale la pena di ripensare».
Bene, non te lo aspettavi, te ne stavi lì con la diffidenza in armi, ed ecco che Calligarich comincia ad intrigarti. Sarà forse per quei "segnali": l'oscura faccenda chiamata amore, i tavoli perdutamente verdi, le sconfitte sempre diverse l'una dall'altra e che vale la pena di ripensare. Solo loro, le sconfitte, perché "ogni vittoria finisce per somigliarsi".
Calligarich semina suggestioni. È un giocatore, ma non un baro, dunque ci sta raccontando qualcosa. Il suo azzardo chiama all'azzardo. E allora pensi che quel linguaggio frantumato, quelle scrittura che ti fa chiedere "ma ci è o ci fa?", quello stile che, intendiamoci, non appartiene davvero a un "buon (?) selvaggio" ma ad un intellettuale consapevole ed avvertito che plasma e modella, forse costituiscono la scelta giusta per raccontare la storia che Calligarich ha nella testa e nel cuore. E sono la scelta giusta perché quella storia, tra invenzioni e trasfigurazioni, è anche una parte della sua, un bel pezzo di vita vissuta, con tante ferite non ancora rimarginate, tanti tavoli verdi che ti hanno visto trionfare o precipitare, e tante sbornie emozionali non ancora smaltite. Una storia con degli "uomini", non degli "umani". E se ci sono gli uomini ci sono anche le donne. C'è l'"oscura faccenda chiamata amore" di cui "niente a volte può essere più scardinante".
Come ci spiega la voce del narratore-testimone: un vecchio giocatore d'azzardo che vive in Riviera, tenendo al caldo (o al freddo) del suo "scompensato muscolo cardiaco" un bel capitale di memorie, disillusioni, inquietudini in disordine sparso.
Il giocatore evoca. Roma, fine anni Sessanta, «un locale per bere chiamato "Al tempo Ritrovato", annidato nei vicoli intorno a quel vasto, oblungo cortile di chiese, caffè e scroscianti fontane - oltre che centro della vita sociale del quartiere - e indicato nelle carte topografiche della Capitale come Piazza Navona. Locale per bere gestito da quel solido cinquantenne fumatore di pipa che era allora il vecchio Santandrea ancora lontano dagli alberi pizzuti. Alta, robusta, biancobaffuta divinità alcolica in abiti di tweed...».
Dentro il locale, il chiassoso colore di un'umanità cosmopolita dove incontri di tutto e di più. Tra cui un giovanotto genovese, «della stazza di circa un armadio», silenzioso e solitario, che ha detto "ciao" alla sua ricca famiglia ed ora suona il piano nelle sale di registrazione, oltre ad essere socio di Santandrea. È, come si è detto un tipo che se ne sta sulle sue, tanto è vero che è chiamato dalla voce narrante "lo Sprangato Partner".
Ad aprire l'"armadio", e poi a serrarlo di nuovo in un modo imprevisto e sconvolgente, ci pensa Alessandra, una ragazza svizzera, figlia di un banchiere. Bellissima. «Forse troppo sicura del suo splendore (…), dotata di un corpo compatto e pieno di riservate promesse, sotto abiti invariabilmente bianchi (…), con un tale profumo di ciò- che-conta addosso (…). Senza considerare il sorriso. A sfottere».
Alessandra capita una sera nel locale, accompagnata da una "Tipa Mascolina". Litiga con l'amica - che le rovescia addosso il suo whisky - e chiede allo Sprangato di asciugarle il vestito. E poi di «uscire insieme nei vicoli per finire di asciugare il vestito con l'aria della notte». È in questo modo strano che nasce un amore ancora più strano. Infatti, anche se Alessandra mostra di essere una femmina ad alto tasso di sensualità, il matrimonio che ne segue non sarà consumato. Rivelazione o rivelazioni in arrivo? Proprio così. Ma non aggiungiamo altro sulla storia che ha un intreccio fastoso e inquietante, ma come "tenuto a bada" dallo stile, volto a signoreggiare.
E l'autore? È un tipo che ha vissuto. Nato all'Asmara da famiglia triestina, una volta in Italia fa un sacco di mestieri. Poi diventa giornalista, sceneggiatore Rai e uomo di teatro. Ma ha talenti da vendere nella narrativa. Questa storia di vita-non-dolce nella Roma di un'estenuata "dolce vita" ne è una conferma. Perché c'è un altro romanzo di Calligarich da leggere: L'ultima estate in città, "scoperto" da Natalia Ginzburg e Cesare Garboli, pubblicato da Garzanti nel 1973 e "ritrovato" (come il "tempo" proustiano e quello del "locale per bere") da Aragno l'anno scorso. Tra i plausi della critica, una volta tanto non "sprangata".
Mario Bernardi Guardi

Nessun commento: