giovedì 4 agosto 2011

La grande estate in musica (da Area)

Da Area di luglio-agosto 2011
Speciale La grande estate
«Senza musica la vita sarebbe un errore». Così parlò Nietzsche e l’aforisma, per sua natura, non lascia spazio a repliche. A replicarsi all’infinito, invece, è il tormentone, la canzone cult, il motivo pop che ci insegue tra radio e locali e non ci molla neanche quando lasciamo, con istantanea nostalgia, i rassicuranti confini dello stabilimento balneare, ben oltre lo spazio temporale della più calda delle stagioni.
La musica è la colonna sonora della nostra vita e non c’è estate che si rispetti senza rotonde sul mare. Non solo: la musica è anche una formidabile macchina del tempo, molto più efficace di quella realizzata dallo scapigliato doc della saga di Ritorno al futuro. Saranno solo «silly love songs», come le chiama Paul McCarteny, o «canzonette», per dirla con Edoardo Bennato, ma i dischi fanno riaffiorare miracolosamente – dopo averli custoditi chissà dove –ricordi ed emozioni. E lo fanno trovando ogni volta le parole migliori per raccontare quello che abbiamo vissuto molto tempo prima. Non necessariamente struggimenti amorosi ma anche viaggi, amicizie, episodi importanti,
Per rivivere quei momenti, individuali o collettivi che siano, non rimane che riaffidarci alle canzoni. Basta ascoltare Notti magiche, per esempio, per riprovare nell’arco di pochi istanti le speranze e le delusioni di Italia 90, di quelle «notti magiche inseguendo un goal sotto il cielo di un’estate italiana». La voce roca di Gianna Nannini ci faceva sentire una cosa sola con gli azzurri in campo – «E dagli spogliatoi escono i ragazzi... e siamo noi! » – ma sarà proprio quell’esperienza esaltante quanto infelice nell’esito finale a calare sulle nostre ambizioni, non solo calcistiche, l’inevitabile “effetto doccia” e a dirci così che l’ubriacatura degli anni Ottanta andava definitivamente superata.
La “questione” è un’altra: la canzone d’estate, per i più giovani, esiste ancora? Svolge la stessa funzione sociale? Prima osservazione: l’estate ha sconfinato e ormai dura dodici mesi – chi non riesce ad aspettare per saziare i piaceri “estivi” non ha che da saltare su un aereo – e le storie d’amore hanno cambiato definitivamente, con gli attori, location e sceneggiature. Altro che stesse spiagge e stesso mare, gli amori nascono e si consumano con ritmi e modi metropolitani e al mare ci si passa tutt’al più il fine settimana, i più “fortunati” quindici giorni di fila. Le vacanze “stanziali” – lunghi mesi da trascorrere nella stessa località e con gli stessi amici di sempre – appartengono al modernariato di vecchie vhs e rari dvd sull’epopea di Sapore di sale.
Letteratura e cinema, da parte loro, si sono adeguati e si tengono alla larga da ogni laguna blu del passato. Non sono solo Massimo Ciavarro e Isabella Ferrari a essere invecchiati, è l’Italia del vinile a essere tramontata e il sapore di sale, che all’epoca rimaneva appiccicato sulla pelle dei ragazzi fin quando tornavano a scuola, ora dura lo spazio di poche ore. Se l’abbronzatura artificiale dei saloni di (presunta) bellezza si è imposta su quella solare, la musica, del resto, non è stata a guardare e ha sferrato un’offensiva senza precedenti. Un tempo potevamo farne tranquillamente a meno, regnava il silenzio e solo sua maestà il juke-box poteva eluderlo per le poche canzoni che avrebbero sigillato quella particolare estate contribuendo a renderla indimenticabile. Dai tormentoni, ora, siamo passati al tormento di una musica invadente nella sua eccessività. Dalle automobili amplificate dei coatti al trillare non sempre melodico dei telefonini, non c’è angolo planetario in cui si possa scegliere quando e cosa ascoltare, figuriamoci a che volume.
Una volta, poi, si attendeva con devozione e (tanta) pazienza la data di un concerto sino a trasformarlo in un evento simbolo nella formazione della nostra educazione sentimentale, da ricordare negli anni a seguire indossandone la maglia dedicata quale segno distintivo per “riconoscersi” e distinguersi dalle vecchie e nuove generazioni. Questo accadeva quando i gusti e le relative scelte individuali avevano un senso, prima che le spinte del mercato ci trasformassero in consumatori ossessivo-compulsivi di musica e pendolari da tour.
Saranno solo canzonette, come dicevamo, ma alcune di loro hanno fatto la storia, sono storia esse stesse. E la chiamano estate di Bruno Martino, per dirne una, rimane una pietra miliare delle canzoni d’estate. Uno dei rarissimi casi di colonizzazione all’incontrario per un paese, il nostro, rassegnato a ballare su swing altrui.
Quel brano musicale, scritto nel 1965 da Franco Califano, Laura Zanin e dallo stesso Bruno Martino, venne eseguito per la prima volta in occasione del Festival delle Rose di quell’anno, organizzato dall’allora Secondo Programma delle reti RAI, ed è stato successivamente ripreso e reinterpretato da molti artisti italiani come anche dai più grandi musicisti del mondo, riaffermando l’eccellenza della nostra musica persino nel gotha del jazz internazionale.
Non tutte le composizioni balneari sono musicalmente all’altezza di questo capolavoro ma molte conservano a distanza di decenni il pregio di essere “evocative”. Confessiamolo: il più delle volte finiamo per amare canzoni che hanno forse l’unico pregio di sembrare scritte per noi, come se fossero state cucite addosso alle nostre vicende più personali – per le nostre «belle d’estate», quando «il vento canto dell’estate» soffiava solo per noi – e non servite in pasto al pubblico. Ognuno ha la sua canzone e la sua particolare motivazione, rigorosamente irrazionale. Nick Hornby ha confessato di aver ascoltato Thunder Road di Bruce Springsteen almeno millecinquecento volte: solo poco più di una volta a settimana per venticinque anni consecutivi.
Per chi scrive, la preferita rimane un pezzo del 1985: L’estate sta finendo dei mitici Righeira – ma che fine hanno fatto? – perché, per dirla con loro, stavo «diventando grande e lo sai che non mi va. In spiaggia di ombrelloni non ce ne sono più, è il solito rituale ma ora manchi tu».
Roberto Alfatti Appetiti

2 commenti:

giovanni fonghini ha detto...

Una volta Gino Paoli in un'intervista televisiva disse (cito a memoria, spero non sbagliare): "le canzoni sono come stampelle dove appendiamo i nostri ricordi". Ma i ricordi sono soprattutto le nostre emozioni. Grazie per questo splendido "I remember" musicale, Roberto.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Grazie a te, Giovanni. Mi sono molto divertito a scriverlo e ricordare, anche se fa un po' male, è una forma di resistenza.