Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia del 25 ottobre 2011
C’era un’Italia che si ritrovava al bar, e già questa, di per sé, potrebbe essere una notizia, o uno spunto di riflessione. Il bar come luogo di aggregazione, parte integrante di una piazza, realtà sociale di un Italia precedente la globalizzazione.
Solitamente, in quel bar, in quella popolare “Piazza Italia”, si finiva per parlare di calcio. Anzi, il calcio diventava l’elemento attorno al quale ruotava la vita stessa del bar. La cui struttura, in questo ha ragione Claudio Amendola, era la stessa a ogni latitudine del Belpaese, Nord e Sud. Tanto per fare degli esempi, nei Bar Sport, non potevano mancare i tavoli da biliardo. I protagonisti del bar a bere caffè, birra o cappuccini, a osservare una donna, sempre la stessa, quasi sempre la cassiera, o la moglie del proprietario. Il sottofondo necessario le partite della domenica a Tutto il calcio minuto per minuto, la radio ascoltata in religioso silenzio. Oppure il bar, centro di aggregazione comunitaria, dove si organizzavano le trasferte a seguito della squadre del cuore, alle quali c’era sempre qualcuno che non andava perché teneva ad altra squadra, infischiandosene del campanile.
Poi arriva l’esperto, il “tennico”, quello che sa tutto di calcio, che snocciola formazioni a memoria, quello che avrebbe saputo come vincere una partita. Soltanto dopo che questa si era giocata. Anche qui c’è uno stereotipo tipicamente italiano: siamo tutti “tennici”, tutti allenatori del giorno dopo. C’era un’Italia e, senza fare troppi giri di parole, ora non c’e più. Inutile starne a fare l’apologia, o tentarne il ridimensionamento. Eravamo quelli descritti nel libro di Stefano Benni, Bar Sport, di cui adesso è giunta nelle sale la trasposizione cinematografica, per la regia di Massimo Martelli.
Poi arriva l’esperto, il “tennico”, quello che sa tutto di calcio, che snocciola formazioni a memoria, quello che avrebbe saputo come vincere una partita. Soltanto dopo che questa si era giocata. Anche qui c’è uno stereotipo tipicamente italiano: siamo tutti “tennici”, tutti allenatori del giorno dopo. C’era un’Italia e, senza fare troppi giri di parole, ora non c’e più. Inutile starne a fare l’apologia, o tentarne il ridimensionamento. Eravamo quelli descritti nel libro di Stefano Benni, Bar Sport, di cui adesso è giunta nelle sale la trasposizione cinematografica, per la regia di Massimo Martelli.
Secondo Claudio Amendola, uno degli attori protagonisti, il Bar Sport «è il riferimento di tutti quelli che, come me, hanno vissuto gli ultimi anni del calcio vero. Oggi questo sport è tutt’altra cosa rispetto a quello che è raccontato nel film, dove ci sono i bar Sport di una Bologna piena di nebbia, che sono poi gli stessi che trovavi a Sondrio, a Palermo o a Pordenone». C’è una dimensione geografica eterogenea e al tempo stesso condivisa, in tutte le parti d’Italia si parla in fondo la stessa lingua. Poi c’è un po’ di retorica, del «si stava meglio quando si stava peggio, che farebbe inorridire il Beppe Di Corrado autore di Tutta colpa di Paolo Rossi, libro del 2008 che risulta particolarmente avverso alle dichiarazioni del romano e romanista Amendola, perché «contro la tentazione di lasciarsi andare alla nostalgia … Il mondo del pallone non è un mondo perfetto. Non lo era prima, non lo è ora e non lo sarà mai. Ed è meraviglioso anche per questo».
Tuttavia, le dichiarazioni di Amendola sono le stesse sensazioni di tanti, di quelli che rimpiangono i tempi andati e le maglie di lana, il calcio alla radio, elemento su cui l’attore si sofferma: «Quel calcio era la radio, era sentire i secondi tempi. Dopo 90º Minuto, alle 18.45 c’era il secondo tempo di una partita, immancabilmente o la Juve o l’Inter o il Milan. C’era l’attesa, non sapevi come avevano giocato e il giorno dopo quando leggevi il giornale ti dovevi fidare dei giornalisti, come se stessi vedendo la partita in quel momento. Oggi te la puoi godere 30 volte e quando leggi il giornale sembra che chi scrive abbia visto un’altra cosa». Passatismo contro presentismo, anche nel calcio. Forse non è del tutto casuale che un altro degli attori presenti in Bar Sport abbia reso pubblica una sua vecchia attitudine, molto calcio di una volta, altro segno tangibile di una nostalgia dalla quale non ci riusciamo a scrollare. Si tratta di Teo Teocoli, milanista doc, che ancora oggi rinuncia a frequentare le tribune degli stadi. «Altro che tribuna vip – dice –. Macché, vado nelle poltroncine arancio, dove andavo da ragazzo con gli amici. Io in tribuna non ci vado. A San Siro, per tutta la vita, ci sono entrato scavalcando».
Non è un coro unanime di consensi quello che ruota attorno a Bar Sport, anzi potremmo dire che sono maggiori le critiche. Per My Movies, il database del «cinema dalla parte del pubblico» il film è «assolutamente non consigliato», con tanto di evidenziatore rosso che sollecita quasi il divieto imperativo. Tra le recensioni del pubblico molti non sono rimasti convinti da questa «operazione rimpatriata». C’è chi preferisce il libro, chi parla di «film lento, noioso, frammentario e anche banale. Non traspariva nulla della gioiosa ironica bolognesità anni’60. Alcune battute erano davvero da far gelare». Un interessante spunto di riflessione arriva da un attento conoscitore della bolognesità anni’60,’70,’80 e via fino agli anni Duemila, il sociologo Ivo Germano. «In Bar Sport – afferma – si respirano atmosfere già viste. È molto simile a Radiofreccia, senza il taglio di quel film che circa dieci anni fa presentava una schiera di attori giovani. Nella trasposizione cinematografica del film di Benni ci troviamo, al contrario, attori che da vent’anni sono sempre gli stessi, da Amendola ad Antonio Catania, passando per l’onnipresente Bisio. L’unico fuori contesto è Giuseppe Battiston, che tra l’altro è bravissimo. È come se il nostro cinema non fosse capace di osare. Non stiamo sulla scia dei This in England, ma nemmeno in quella della cinematografia britannica sul calcio, come Febbre a 90º, Sixty six». Del resto nemmeno il football di casa nostra, per diverse questioni, sta sulla scia di quello inglese. Una ragione ci sarà o forse anche più di una.
Giovanni Tarantino
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