Articolo di Michele de Feudis
Dal Secolo d'Italia del 25 ottobre 2011
L’arcaismo della lotta tra gladiatori e la dolcezza della danza. Amore e conflitto si intrecciano con misticismo e cultura. “Grazia e furore”, docufilm diretto dalla giovane cineasta salentina Heidi Rizzo e prodotto da Edoardo Winspeare, già regista di «Sangue vivo» e «I galantuomini», è un racconto che squarcia il velo dei luoghi comuni sulle palestre dove si praticano arti marziali, restituendo fascino e autenticità ai combattenti attraverso la narrazione delle giornate tra allenamenti e famiglia di due atleti leccesi, i fratelli leccesi, Fabio e Gianluca Siciliani, campioni di Muay Thai, divisi tra gli affetti in Italia e i combattimenti in Thailandia. L’opera sarà in concorso nel prossimo Festival del Cinema di Roma.
Per introdursi nell’universo dei vari sport di combattimento indispensabile guida può essere il libro-gioiello di Antonio Franchini, “Gladiatori” (Mondadori), viatico per comprendere come in palestre sgarrupate, in ring più o meno improvvisati, nelle interminabili sedute di allenamento per assimilare una tecnica che canonizza attraverso regole l’energia della lotta, si riscopre l’elegia della sofferenza, mista a gloria, declinazione postmoderna di antici codici guerrieri. Per Fabio Siciliani, campione dell’arte marziale asiatica e protagonista del film “il Muay Thay è cultura, religione. A chi guarda la boxe thailandese da un punto di vista occidentale sembra scandaloso pensare che bambini di sei anni vanno a combattere. È terribile, ma dipende dall’atteggiamento etnocentrico che abbiamo noi occidentali. Lì la boxe è patrimonio genetico, patrimonio culturale. I bambini iniziano a combattere a sei anni; si allenano alle 5,30 del mattino e devono finire entro le 7,30 perché poi i loro maestri, i reggitori di pao, li accompagnano a scuola. I genitori li affidano ai maestri, li fanno crescere. Imparano le cerimonie di protezione, l’importanza dei rituali, dei gesti. Si respira un’aria diversa. Si sente che è Oriente e che c’è meditazione. Non sono solo colpi e sport da combattimento come invece si vuole vedere a tutti costi in Occidente”.
Non c’è la scelta conformista del borghese annoiato alla ricerca di brividi nella scelta di vita dei fratelli Siciliani. “Odio la guerra, detesto gli eserciti, amo combattere”: questa scritta sul muro di una palestra milanese spiega meglio di un trattato la vocazione guerriera che sottende una scelta di vita da combattente. “Oggi – aggiunge Fabio Siciliani - mi è ritornato quel livore, quella scintilla che contraddistingue un fighters perché mi è stata data la possibilità di scontrarmi periodicamente negli stadi thailandesi. Nella King’s cup e nella Queen’s cup si combatte nelle piazze, in diretta mondiale davanti a 300mila persone; fare la danza propiziatoria davanti alla regina ha un valore diverso e hai il batticuore prima di salire sul ring. Quelle sì che sono emozioni forti”.
Michele De Feudis
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