venerdì 21 ottobre 2011

Colpo al cuore: tuffo nella follia dell'antifascismo degli anni Settanta (di Michele De Feudis)

Articolo di Michele De Feudis
Dal Secolo d'Italia del 21 ottobre 2011
Il braccio di ferro tra lo Stato e le Brigate Rosse, piegate dalle forze dell'ordine dopo cinquecento giorni di investigazioni, pentimenti e "metodi speciali". Una guerra civile a bassa intensità. Rapine quotidiane a banche e uffici postali come forme di autofinanziamento per gruppi terroristici ossessionati dalla necessità di reperire fondi per i latitanti e per gli "stipendi" riservati ai quadri dell'organizzazione.
L'odio contro l'imperialismo e la Nato che si materializza nel sequestro del generale americano James Lee Dozier, canto del cigno per i profeti della rivoluzione proletaria. E i retroscena inediti sulla caccia ai fascisti, considerati "schiuma della terra" da annientare, una campagna di odio nei quartieri popolari di Roma alimentata dall'estrema sinistra, affiancata dai commandos brigatisti, con particolari inediti sulle morti dei giovani militanti del Msi, Mikis Mantakas e Mario Zicchieri, e sull'atroce strage di Acca Larenzia, rivissuti attraverso le parole di uno dei componenti del comitato esecutivo delle Br, testimonianza utile a fare luce - anche in sede giudiziaria - su omicidi che non hanno ancora un colpevole. Il libro-inchiesta di Nicola Rao, Colpo al cuore (pp. 182, euro 17, edito da Sperling&Kupfer) è un reportage nel quale si riporta indietro il lettore al clima sulfureo dell'Italia di 30 anni fa.
Tutto come in un film
Il film del racconto procede con due filoni paralleli: da un lato c'è la prima intervista concessa da Antonio Savasta, nome di battaglia prima Diego e poi Renato, componente del comitato esecutivo che sviscera le dinamiche interne all'organizzazione comunista combattente; dall'altro le ricostruzioni degli esponenti delle forze dell'ordine in prima linea nella lotta contro il terrorismo. Il risultato è un mosaico sconvolgente dove, accanto alla dolorosa memoria dei protagonisti, restano sullo sfondo una serie di interrogativi senza risposta legati alle responsabilità politiche. Colpo al cuore ha il ritmo sostenuto di un "noir". Compaiono figure di funzionari dello Stato che offrono la versione, spesso parziale e condita da indispensabili omissioni legate alla sicurezza nazionale. «Io sono stato un combattente, perché quella contro le Brigate Rosse era una guerra», afferma il "professore de tormentis", responsabile della squadra che metteva in pratica i trattamenti speciali che portarono ai pentimenti di brigatisti incalliti e alle rivelazione di esponenti dell'estrema destra come Carmine Palladino (dopo il duro interrogatorio nella caserma di Castro Pretorio la sua confessione bruciò il nascondiglio del Nar Giorgio Vale, morto in circostanze controverse, "suicidato" dalla polizia per i suoi camerati).
La volontà di annientare
Inquietanti risultano le rivelazioni di Savasta/Emilio sulla pratica dell'antifascismo militante a Roma negli anni Settanta: «Le armi aumentavano, insieme con la nostra rabbia. Cominciammo a compiere rapine». «Per noi i fascisti erano la schiuma della terra, il male assoluto. Con loro non ci poteva e doveva essere nessun tipo di mediazione o di pietà. Andavano semplicemente annientati». E sugli scontri davanti alla sezione del Msi di Via Ottaviano aggiunge: «Quando, nel febbraio del 1975, fu ucciso Mikis Mantakas, a premere il grilletto fu un ex di Potop come Alvaro Lojacono insieme con i suoi compagni». Agghiacciante la spiegazione: «Perché sparare ai fascisti quel giorno? Semplice. Erano troppi, facevano proseliti e bisognava ricacciarli indietro. Con tutti i mezzi. Punto e basta. "La Resistenza ce l'ha insegnato: uccidere un fascista non è reato" non era solo lo slogan che urlavamo a squarciagola nelle piazze. La nostra continuità con i partigiani l'avremmo dimostrata nei fatti». Anche l'omicidio di Mario Zicchieri, il 29 ottobre '75, rientrava in una strategia armata ad hoc della sinistra eversiva: «Compresi subito che era stato proprio il Lapp (Lotta armata per il proletariato n.d.r.) a dare l'assalto al Prenestino. E i capi del Lapp erano loro due (Germano Maccari e Brunetto Seghetti n.d.r.), insieme con Valerio Morucci, che avrei conosciuto tempo dopo.(..) Da quel che ho capito, davanti alla sezione missina quel pomeriggio arrivarono in tre su una 128. Uno restò al volante, armato di pistola. Il secondo era di copertura, con un'arma lunga e l'altro sparò ai due fascisti con un fucile a pompa. Da quel che si diceva, ma non l'ho mai verificato, uno dei tre era un compagno che poi sarebbe morto in un incidente d'auto».
Elementi finora sconosciuti
Dettagli finora inediti sulla strage di Acca Larenzia emergono dall'affresco del clima romano in quel periodo. Savasta riferisce che nelle Br c'era stato un lungo dibattito nella colonna romana su come comportarsi con i fascisti sul territorio: «Tutto nasceva dal fatto che per quelli di Torre Spaccata il problema principale della zona Tuscolano-Cinecittà era costituito non tanto dal potere democristiano, ma dalla militanza dei fascisti. In pratica, chiedevano all'organizzazione una specie di placet per colpirli. Erano assolutamente determinati nel voler sparare ai fascisti di quella zona». Nelle Br non tutti erano sulle stesse posizioni, Maurizio (Mario Moretti) e Pecos (Valerio Morucci) avrebbero privilegiato i rappresentanti e i simboli della Dc o delle forze dell'ordine nei quartieri. Quelli di Torre Spaccata ritenevano che «i fascisti dalle loro parti erano troppo visibili». E sulla strage, i cui responsabili non sono mai stati individuati dalla magistratura, il brigatista pentito offre una versione inedita: «Nessuno mi disse mai esplicitamente chi aveva sparato ad Acca Larenzia, ma ho sempre avuto la convinzione, dopo quello che avevo sentito, che dietro quell'azione ci fossero i compagni della Brigata Torre Spaccata. Sicuramente fornirono copertura, armi, mezzi ma probabilmente, in quel caso, alcuni di loro parteciparono anche personalmente all'attacco. (…) Qualche giorno dopo l'episodio di Acca Larenzia un compagno del Cococe passò in clandestinità. Gli chiesi esplicitamente se anche lui avesse partecipato all'attacco ai fascisti del Tuscolano, ma lui negò. Questo mi rafforzò nella convinzione che fu un'azione tutta interna agli ambienti del gruppo di Torre Spaccata».
L'autocritica di Savasta
Il saggio termina con l'autocritica di Savasta, tra rilettura del mito fondante della violenza partigiana e stalinismo: «La verità è che queste persone (i brigatisti n.d.r.), con la guerra partigiana di cui si dichiaravano eredi, avevano in comune soltanto una cosa: e cioè che anche i partigiani, come in tutte le guerre di liberazione, uccidevano i confidenti o i traditori. Ma l'analogia finisce lì. Il resto è un processo degenerativo del marxismo leninismo. (…) Questo è stalinismo, gli aspetti cancerogeni e spaventosi del comunismo. I khmer rossi. Ma questi germi li avevamo dentro di noi, evidentemente. Erano parte di noi».
Michele De Feudis

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