Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia del 18 ottobre 2011
Calcio e violenza sono destinati a fare notizia anche quando questa manca. I disordini di sabato scorso a seguito della manifestazione degli indignati hanno visto «arruolati» di diritto gli ultras tra le fila dei black bloc. Su la Repubblica di domenica 16 ottobre, nell’articolo di Carlo Bonini che illustra la mappatura dei violenti, si legge: «Qualcuno assicura di aver intravisto facce note dei romani di “Acrobax”. Qualche ultras della Roma e del Cosenza». Qualcuno assicura, «si dice», si vocifera.
Poi, sempre a pagina 9 di Repubblica, una didascalia recita: «Ultras. Presenti tifosi legati alla Roma, ma anche ultras di altre squadre come Cosenza, Venezia e Modena». Queste presenze, chiaramente, non sono certificate da nessuno, ma tant’è, fa sempre effetto parlare di componenti di tifoserie di squadre di calcio infiltrate nei cortei.
Sulla falsariga di quanto si è letto nei quotidiani di domenica, la paura degli ultras ha alimentato le cronache del pre-derby. Lazio-Roma, in posticipo domenica sera, secondo alcuni poteva lasciare presagire alla prosecuzione degli scontri. Del resto, anche Nichi Vendola, leader di Sinistra Ecologia e Libertà, non ha esitato a definire i black bloc come «Un magma di frange di ultras da stadio e settori ultraminoritari degli anarchici». Gli ultras da stadio: sempre loro, anche quando non c’entrano. Così, poco prima che il derby capitolino prendesse il via, da Tg1 al Tg4 un coro unanime in cui si parla della possibilità che, addirittura, «le armi utilizzate il giorno prima dai black bloc siano state nascoste sotto le auto parcheggiate nel Lungotevere». Poco importa se, dopo, la gara si è svolta regolarmente, ci sono stati degli sconfitti e dei vincitori, tutto è filato liscio e alla fine gli spettatori – non moltissimi considerate le presenze abituali di un derby – sono andati via dall’Olimpico pacificamente. Senza i preventivati incidenti.
Eppure, «c’è un nesso inscindibile tra rito calcistico e violenza. Un nesso antico quanto la civiltà occidentale». Chi rileva la natura antropologica dell’incrocio fra calcio e violenza è addirittura Renato Curcio, capo storico delle Brigate rosse. Ha fatto storia, in tal senso, un suo articolo pubblicato sul Guerin Sportivo dal titolo “La guerra in trappola. Dietro il teppismo irrecuperabile”, pubblicato il 29 gennaio 1986. Una riflessione su quanto era accaduto allo stadio Heysel di Bruxelles, dove in occasione di una tragica e nota finale di Coppa dei campioni tra Juventus e Bruxelles persero la vita 39 tifosi italiani. Il pezzo viene riproposto nell’ultimo numero del Guerino in edicola, nell’inserto che ripercorre i cento anni del periodico di critica e politica sportiva fondato nel 1912.
Quanto espresso da Curcio, “cattivo maestro” degli anni’70, è significativo: «Heysel non è la prima volta, neppure la più grave. Certamente non sarà l’ultima, con o senza gli inglesi. Le guerre negli stadi sono guerre di corpi in trappola che finiscono per perfezionare la trappola. Una trappola che scatta con assoluta indifferenza sui morti non meno che sui vivi. Metafore spietate della guerra in quest’epoca metropolitana. Per quanto accesi i tifosi non sono animali. E neppure psicopatici, mestatori politici o sub-normali. Sono masse culturalmente manipolate. Cristalli di massa sociale canalizzata, influenzata e spinta a identificarsi con una bandiera e a identificare, in un’altra, il suo generico nemico». Pur datato al 1986 l’articolo di Curcio è di sorprendente attualità. Sembra quasi relazionarsi a toni scandalizzati di chi ha visto ultras tra i black bloc di Roma quando afferma che i tifosi, anche i più accesi, «non sono mestatori politici». È particolarmente curioso rilevare che un articolo di questo genere venne proposto dallo stesso Curcio a Italo Cucci, che non ha mai nascosto le sue idee politiche di destra.
«Fui contattato dalla Cooperativa “Sensibili alle Foglie” che il capo delle Brigate rosse aveva costituito in carcere – racconta Cucci –. Non mi permisi di chiedere il “taglio del pezzo”, né di suggerire dettagli, come in fondo avrei potuto, visto che trattavo con un ergastolano (e anche per le mie idee politiche contrapposte a quelle di Curcio). Non so perché, mi fidai subito di lui, pur sapendo che non si sarebbe trattato di un pezzo leggero. L’articolo uscì, fece rumore, e non tanto fra i lettori, gli specialissimi afacionados, i fedelissimi che avevano accettato e premiato la copertina dedicata a Pasolini il giorno in cui fu ucciso, ma nelle alte sfere del calcio, Casa Juve in particolare». Lo stesso Italo Cucci ha anche ricordato che l’idea di fare scrivere Curcio non era piaciuta nemmeno a un paio di redattori che fino all’82 venivano a lavorare con Lotta continua in saccoccia e bene in vista. Eppure, in quell’occasione, quella strana e discussa collaborazione si rivelò una lezione di giornalismo che il Guerin Sportivo impartì a tutti. Tranne che ai giornalisti che hanno «sentito dire» che c’erano tifosi infiltrati tra i black bloc, pronti ad atti di teppismo prima di Lazio-Roma.
Giovanni Tarantino
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