È morto lo scorso agosto il regista più innovativo e discusso del cinema italiano Liquidato dai critici integrati come un cialtrone da quattro soldi, in realtà fu un maestro nel suo genere. Con Africa addio fu il primo a lanciare l’allarme sul baratro della decolonizzazione che si apriva davanti al Continente nero, destinato a finire in un dramma, se possibile, anche peggiore del precedente
Articolo di Angelo Spaziano
Da Area di ottobre 2011
Era un regista, un documentarista, un eclettico affabulatore, un giornalista di vaglia, ma anche uno sciupafemmine, un Porfirio Rubirosa in versione filmica sempre a caccia di nuove avventure galanti. Insomma, Gualtiero Jacopetti, il cineasta scomparso lo scorso agosto nell’indifferenza pressoché totale dei mass media e del mondo della ribalta, fu un geniale e affascinante uomo d’azione e di cultura. Uno che sulla vita la sapeva lunga e che vedeva le cose a venire molto prima degli altri.
Pur essendo a digiuno di politica e strategia, infatti, riuscì a intuire con largo anticipo le aspre problematiche esistenziali e sociali che avrebbero caratterizzato il secondo dopoguerra, ridicolizzando le incomprensibili elucubrazioni delle teste d’uovo uscite da Harvard e Cambridge. Bastava guardarsi uno dei suoi avvincenti lungometraggi per rendere anacronistici e superati i ponderosi tomi confezionati dai guru della geopolitica planetaria. Spocchiosi professoroni che andavano cogitando astruse fumisterie del tipo “fine della storia”, “società liquide” e “secoli brevi” o “lunghi” senza neanche sfiorare neppure per sbaglio le concrete, sconvolgenti tematiche che di lì a poco ci avrebbero stravolto la vita.
Con Mondo cane, Jacopetti fu tra i primi uomini di spettacolo a declinare in suggestioni cinematografiche la ferocia innata del genere umano. Una creatura, l’uomo, «maledettamente cattiva». Spietata con se stesso, con l’ambiente circostante, ma soprattutto con tutti gli esseri viventi che hanno la sfortuna di capitare sul suo cammino. In quello stravolgente documentario, ad esempio, per la prima volta vennero mostrate al pubblico, in tutta la loro efferatezza, le sadiche pratiche d’ingozzamento coatto delle oche esercitate dagli allevatori francesi per ottenere il tanto decantato foie-gras. O la rivoltante abitudine tutta cinese di uccidere, scuoiare, cucinare e divorare senza tanti complimenti ogni genere di “selvaggina”, cani, tartarughe, insetti e serpenti compresi.
Col secondo capolavoro, invece, Africa addio, il versatile cineasta profetizzò la catastrofe cui stava per andare incontro il Continente nero. Africa addio, infatti, sosteneva l’esatto contrario di quanto andava affermando a livello planetario il pensiero unico dominante allora come oggi: «Il mio film era la prova» dichiarava nel 1976 il regista intervistato da Cultura di destra, il mensile diretto da Armando Plebe e Franz Maria d’Asaro, «che la decolonizzazione improvvisa e traumatica dettata dall’egoismo delle nazioni europee ha prodotto solo un numero elevatissimo di vittime».
Jacopetti insomma aveva osato lanciare un ammonimento poco rispettoso dei desiderata buonisti e cialtroneschi del progressismo internazionale: la nuova Africa che sta per lasciarsi alle spalle il lungo dominio dell’uomo bianco sarà, se possibile, anche peggiore di quella precedente. E il fatto è che per testimonial Jacopetti usava la cinepresa. E la usava da maestro.
La scena clou di Africa addio, tanto per dirne una, portava sullo schermo il feroce sterminio di una tribù indigena ad opera di una banda di mercenari. La milizia faceva fuoco da una jeep e le vittime cadevano una appresso all’altra in un mare di sangue, in un’allucinante sequenza al cardiopalmo. Una videata talmente adrenalinica da sembrare autentica. E difatti l’immaginifico regista, lusingatissimo per il grande successo riscosso, cercò in un primo tempo di spacciarla come tale. Fino a che non gli comunicarono ufficialmente che se la strage era da considerarsi accaduta sul serio e se veramente lui aveva girato senza battere ciglio le riprese stando comodamente seduto sulla jeep dei mercenari, rischiava di finire in galera. L’accusa? Complicità in strage. Pertanto lo sconcertato regista di Barga si vide costretto a ritrattare tutto rivelando l’assemblaggio del truce episodio avvenuto in appositi e inoffensivi studios cinematografici.
Per farla breve: non gli risparmiarono nulla. Accusato di razzismo non ebbe esitazione a replicare: «Non essere razzisti non vuol solo dire non dare una pedata a un negro. Ma anche accarezzarlo e vezzeggiarlo solo per piaggeria: questo è razzismo ma alla rovescia». Tacciato di incitare alla violenza, ebbe a dire un giorno che «non si possono risolvere le cose con la non violenza; la non violenza permette ai più forti di dormire tranquilli».
Il settimanale L’Espresso sostenne addirittura che una volta il regista avesse fatto ritardare apposta un’esecuzione capitale per permetterne la ripresa. Ma per lui parlava la sua eccezionale maestria.
La sua ultima fatica, Mondo candido ispirata al Candido di Voltaire, fu l’ultimo spettacolo cui assistette Mikis Mantakas, lo studente del Fuan ucciso dai rossi a Roma il 28 febbraio 1975. La sera precedente il ragazzo era andato al cinema insieme ad alcuni amici proprio per vedere Mondo candido. All’uscita, Mantakas aveva affermato, quasi presagendo il suo triste destino: «Per me è giusto morire per il proprio ideale».
Insomma, dai suoi ritratti in celluloide, smentendo le barzellette di Rousseau, scaturiva un mondo infame, un’umanità feroce ma soprattutto un’Africa sull’orlo del precipizio. Un ecosistema da sogno maltrattato e depredato dal colonialismo sfruttatore, ma che con l’approssimarsi di una decolonizzazione scriteriata e selvaggia imposta dal pensiero unico universale stava per celebrare il suo funerale. E i fatti, purtroppo, gli avrebbero dato ragione…
Appena l’ultimo contingente europeo lasciò la terra d’Africa, l’intero continente fu pervaso da una ventata di follia. Un raptus autodistruttivo che miete vittime ancora oggi. Nigeriani del sud contro quelli del nord, sudanesi contro darfuriani, libici contro ciadiani, tutsi contro hutu, congolesi contro katanghesi, somali contro etiopi, etiopi contro eritrei. E ancora: i genocidi perpetrati da despoti antropofagi come il centrafricano Bokassa e l’ugandese Idi Amin, i satrapi sanguinari come Gheddafi, Menghistu, Barre, Lumumba, Mobutu, Mugabe, senza calcolare le guerre civili e i disastri provocati dall’ideologia comunista in Angola, Mozambico ed ex-Rhodesia.
E pensare che prima del 1962 Jacopetti era unanimemente considerato un vip dal jet set italiota. Per Rizzoli lavorò anche a un cinegiornale che Gualtiero subito trasformò e ripensò in modo netto e radicale. Prima di lui la ribalta italica era appannaggio esclusivo dei vecchi documentari “Luce”. Prodotti decorosi, per carità, ma si trattava essenzialmente di stucchevoli veicoli di propaganda ideologica rimasti più o meno imbalsamati alle cifre espressive peculiari del passato regime. Soffrivano cioè di un’inevitabile vocazione alla retorica istituzionale, al bempensantismo bigotto, alla velina laudatoria e all’eloquio eccessivamente pomposo. Jacopetti mutò d’émblée questi vetusti stereotipi fatti propri dall’establishment democomunista in provocatorie e dissacranti pernacchie lanciate a 360° nei confronti dei mammasantissima dei salotti buoni. In particolare contro tutti o quasi tutti i parrucconi del tempo, da Pasolini a Moravia a Visconti. A ironizzare sugli onorevoli tromboni della casta, a motteggiare su escort e veline - anche se ancora non si chiamavano così - del mondo tutto lustrini e paillette della settima arte.
Ma nella sua furia iconoclasta quell’incorreggibile Giamburrasca finì col pestare troppi piedi eccellenti e i big della ribalta politica e cinematografica dell’epoca se la sarebbero legata al dito. Insomma, era inevitabile che prima o poi i suscettibili figli di un dio maggiore gli avrebbero presentato il conto, interessi compresi. E infatti venne il giorno in cui il “regista di ventura” avrebbe pagato a prezzo assai salato la sua spregiudicatezza e il suo anticonformismo.
Nel 1963, con l’avvento del primo governo di centrosinistra che all’improvviso andava a innalzare al rango istituzionale tanti personaggi che lui fino a un giorno prima aveva strapazzato, Gualtiero passò in un lampo dall’adulazione alla demonizzazione. In un breve lasso di tempo il cinegiornale gli fu scippato di mano e Mondo cane venne soppresso nella tenaglia dell’ostracismo prima ancora di arrivare nelle sale. Era ovvio che dalla sponda di sinistra si era già schierato il plotone d’esecuzione e i comunisti italici si produssero per primi in una serie d’inviperite e risentite contumelie contro l’uomo e il suo entourage. Ma naturalmente in questa gara alla lapidazione del capro espiatorio i servi di Mosca non furono soli. E fu così che l’Avanti! si distinse per un atteggiamento scomposto e ingiurioso verso tutti gli artefici del lungometraggio, mentre la tv di stato organizzò un miserabile linciaggio mediatico del regista.
E se nella Storia del cinema italiano, di Goffredo Fofi e Franca Faldini, Jacopetti venne allegramente snobbato, nel Dizionario dei film di Paolo Mereghetti ci si limitò a stroncare Mondo cane con la chiosa: «Avrebbe fatto anche di peggio». Si arrivò al punto che alcuni babbani éngagé, con raro e singolare senso di libertà d’espressione, reclamarono financo la messa al bando ope legis del film.
Tra le poche voci fuori dal coro, il critico cinematografico del Borghese, Claudio Quarantotto, che all’esordio di Mondo cane scriveva: «Questo specchio deformante della terra in cui viviamo, queste storie vere raccontate con indifferente superficialità dal playboy cinematografico Jacopetti, rivelano l’uomo più delle tavolette erotiche dei nostri intellettuali. Egualmente canine ma più laide». Soltanto i patrioti del Fuan e della Giovane Italia, organizzazioni giovanili del Msi, presero le difese dell’uomo di cultura. Forse fu proprio per tale motivo che l’immaginifico cineasta finì con l’aderire alla “Costituente di destra” di almirantiana memoria.
La persecuzione subita dai poteri forti e l’intima coerenza che lo contrassegnava lo inducevano in poche parole a prendere posizione, a schierarsi. Ma fu tutto vano. Disgustato dal clima d’intolleranza e dal cordone sanitario stesogli intorno che gli impedivano ogni iniziativa, il mago del proiettore si vide costretto ad abbandonare il cinema e il suo ipocrita milieu per dedicarsi alle attività più varie.
Da provetto giornalista scrisse anche sotto pseudonimo sul Corriere e col suo vero nome sul montanelliano Giornale. Ma la strada della tv e del cinema gli rimase inesorabilmente preclusa. Gualtiero era di fatto - e restava - uno scomunicato, un esiliato in patria.
A un certo punto, risentitissimo, si ritirò nel suo eremo dorato thailandese a lavorare per tv e case editrici nipponiche. Poi tornò in Italia. Ma solo per morire, dimenticato da tutti.
Angelo Spaziano
2 commenti:
direi che non è corretto dire che morì abbandonato da tutti. c'è un documentario italiano che finalmente a giorni uscirà sul mercato distribuito dall'Istituto Luce, una serata omaggio alla casa del cinema un paio di anni fa, un documentario realizzato nel 2006 (credo) negli Stati Uniti sul suo cinema, un libro inglese, una rassegna all'università di Bradford, la proiezione dei suoi film a Chicago e Londra, alcune brevi interviste per rai e per alcune riviste... certo immaginare che il cinema e soprattutto la stampa italiana (anche quella a lui più vicina) potessero o desiderassero celebrarlo nei suoi ultimi anni di vita, francamente mi sembra sperare un po' troppo...
Tristissimo che una personalità come quella di Jacopetti sia stata solo osteggiata, attaccata e, peggio ancora, fraintesa sia da una parte politica che dall'altra. Ma ci ha lasciato i suoi splendidi film...
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