martedì 1 novembre 2011

Braccia sottratte ai Campi... Hobbit (di Adriano Scianca)

Articolo di Adriano Scianca
Da Ideodromocasapound.org
Era da tempo che se ne parlava e infine è arrivato: più volte annunciato in internet, Da Giovane Europa ai Campi Hobbit, di Giovanni Tarantino ha fatto finalmente la sua comparsa sugli scaffali delle librerie. È un saggio interessante e documentato, scritto da un giovane giornalista che ce l'ha messa tutta per ricostruire in tutte le sue sfaccettature un ventennio (1966-1986) di esperienze movimentiste partite da destra per approdare... in tanti posti differenti (e non sempre migliori del pur sgangherato porto da cui era salpata la navicella).
L'attenzione concessa alla pubblicistica d'epoca, così come ai percorsi individuali dei protagonisti, è sicuramente lodevole, anche se troppo spesso le tare del materiale umano di cui Tarantino si è trovato a dover registrare i ricordi hanno rischiato di vanificare tanto lavoro. Ma andiamo con ordine.
I due corni della ricerca di Tarantino – Giovane Europa e Campi Hobbit, appunto – hanno subito una sorte storiografica molto diversa. Semi-dimenticata la prima, con memorie e ricostruzioni storiche sparse, sfilacciate, carbonare; ingolfata di memorialistica bolsa e narcisistica, invece, la memoria dei secondi, ricostruiti periodicamente dai media mainstream come “anticipazione” di questa o quella espressione della destra attuale. Il titolo, va da sé, indica se non una filiazione diretta, quanto meno un passaggio di consegne tra i due fenomeni. Una liaison, in verità, già notata da altri: in un articolo apparso su Le partisan européen (poi ripreso come prefazione del thiriartiano La Grande Nazione, SEB, Milano 1993), già René Pellissier individuava in Thiriart il vero anticipatore della Nouvelle Droite. Che il filo rosso JE-ND valga anche al di fuori del contesto francofono è forse più discutibile. Ma non è questo il punto.
Stilare la pagellina dell'acribia filologica e storiografica di Tarantino, infatti, non ci interessa e non ci appassiona. Le polemiche un po' incomprensibili su chi ha scritto quel ciclostilato e chi ha disegnato quella celtica le lasciamo alla sensibilità personale di ognuno dei coinvolti. Certo, l'impressione generale è che la ricostruzione dell'universo politico, culturale e antropologico del thiriartismo italico risenta un po' troppo del libertarismo attuale di protagonisti dell'epoca come Luigi De Anna e altri. Beninteso: libertaria e ostile a una certa vecchia destra Giovane Europa lo fu davvero. E tuttavia è poco credibile, De Anna, quando rimarca la discontinuità necessaria di Jeune Europe dal... “neonazismo” (p. 21), discontinuità peraltro relativizzata dallo stesso Tarantino appena una pagina dopo. Per capire quali fossero i reali riferimenti di quell'universo umano converrebbe rileggersi, semmai, l'intervento che lo stesso De Anna, Cardini e altri giovani missini fiorentini presentarono al congresso provinciale del partito nel 1965: «Noi sappiamo che da Sorel a Toniolo, da Maurras a Mussolini, da José Antonio ad Adolf Hitler (ed è bene sottolinearlo: anche ad Adolf Hitler), da Salazar a Codreanu fino alle espressioni più recenti, Engdahl e Thiriart, corre un filo sottile ma tenace che occorre sdipanare lentamente per avventurarsi nel labirinto del mondo moderno». Per il nucleo fiorentino in procinto di transitare dal Msi a Giovane Europa, quindi, Adolf Hitler era un riferimento acquisito e sottolineato con forza. Un dato, questo, che ognuno può contestualizzare o interpretare come vuole. L'importante è non occultarlo per rileggere la storia col senno del poi. Altre scelte ermeneutiche di Tarantino vanno del resto in questa direzione. Prendere l'itinerario politico e umano di Enzo Biffi Gentili (passato da Jeune Europe alla carica di vicesindaco socialista di Torino) e farne un percorso esemplare di tutta una generazione è ad esempio un po' azzardato, quando poi magari si liquida in poche battute il parmense Claudio Mutti, il cui eurasiatismo attuale appare come una forma a tratti discutibile ma certo più coerente di “thiriartismo dopo Thiriart”. Anche se con meno appeal mediatico.
Ma questi, in fondo, sono dettagli. La ricostruzione della Giovane Europa italiana proposta da Tarantino rimane – a fronte di una storiografia sull'argomento ancora scarsa e sfuggente – comunque degna del massimo interesse. Ad altri l'onere di fare di più e meglio, se vorranno e se ci riusciranno. Quanto ai Campi Hobbit, invece, la questione si complica. È difficile, oggi, individuare un'essenza univoca dell'esperienza dei Campi. Parliamo, in effetti, di un fenomeno controverso e ambivalente, ricco di contraddizioni. Si tratta, tanto per dire, della platea d'esordio del migliore cantautore nero di sempre, quel Massimo Morsello che debuttò sul palco di Campo Hobbit II, ma anche dell'occasione per una censura istituzionale piuttosto squallida ai suoi danni, dovuta all'esecuzione, da parte di Massimino, di “Paradiso dei guerrieri”, dedicata a Franco Anselmi, brano che fu non a caso escluso dalla compilation ufficiale della kermesse. Morsello, del resto, tornò a farsi vedere anche a Campo Hobbit III quando, insieme ai militanti del Fuan di Via Siena lesse un duro comunicato dei prigionieri politici rinchiusi Rebibbia. Episodi rivelatori. Ma pensiamo anche all'ambiguità del rapporto con il Msi, dalle contiguità di “Campo Gollum” (il secondo), con Fini che va, ma dorme in albergo perché “in tenda ci dormono i cretini”, all'eterna e malriposta fiducia in un personaggio come Pino Rauti. E che dire dei disastri ideologici di cui ancora oggi facciamo le spese come l'ecologismo bucolico e antinuclearista o la pretenziosa, intellettualistica e sciagurata pretesa di “uscire dal tunnel del fascismo”. Se chi fa politica oggi deve faticare per togliere dai manifesti fate e folletti, ebbene, la gran parte della responsabilità è di chi ha abbandonato l'immaginario futurista e conquistatore in nome degli abitanti della Contea (quando, peraltro, sarebbe bastato cercare fra i presunti “fratelli maggiori” dell'epoca - i neodestri francesi - e trovare in un Guillaume Faye ancora non impazzito riferimenti di ben altra caratura).
Questo non significa che i Campi Hobbit non avessero elementi di oggettivo interesse: pensiamo al tentativo giovanile di ricercare una propria autonomia dai diktat di partito o all'ottica eminentemente artistico-metapolitica con cui gli organizzatori decisero di impostare la kermesse. C'era, nei Campi, anche un tentativo di riappropriazione creativa dello spazio (pensiamo alle “città immaginarie” che facevano da sfondo a manifestazioni come quelle di Castel Camponeschi, in Campo Hobbit III) e una certa sperimentazione estetica tesa a superare il nostalgismo missino. Ma già questi due ultimi elementi erano spesso declinati in senso “debole”, con un retrogusto che sapeva più di fuga che di conquista. Fuga verso l'interno, in un ripiego intimistico e individualistico che schifava la vecchia militanza per aprire le porte a ogni diserzione. Fuga verso l'esterno, per piacere e bramare attenzione, riconoscimento, legittimazione. Fuga verso l'altrove, in tolkienismi fuorvianti e celtismo d'accatto. Ma sempre e comunque fuga.
Eppure la memoria dei Campi Hobbit è oggi contesa da tre grandi narrazioni che di tutto questo non parlano: quella tarchiana/neodestra, quella finiana/postrautiana e quella alemanniana/colleoppiesca. La prima è quella posta in essere, in modo sostanzialmente solitario, da Marco Tarchi. I Campi Hobbit, per Tarchi, sarebbero una sorta di evento bifronte, un momento di passaggio, per metà ancora collocato “a destra” e per l'altra metà già oltre di essa, in direzione di una “nuova sintesi” che oggi sarebbe appunto rappresentata dalle riviste animate dallo studioso fiorentino come Diorama letterario e Trasgressioni, che tutti i ponti hanno tagliato con l'ambiente di origine. Si tratta di una narrazione autoreferenziale ma non priva di una certa onestà, non foss'altro che per la coerenza e l'ostinazione con cui è portata avanti. Diverso il caso delle altre due interpretazioni, di taglio nettamente più politico/politicante. La lettura finiana/postrautiana vede anch'essa i Campi Hobbit come una sorta di fenomeno di faglia di natura libertaria e “progressista”, i cui esiti “naturali” sarebbero non nella Nuova Destra in sé quanto nella “destra nuova” che fa da sfondo al progetto di Futuro e libertà. La narrazione alemanniana/colleoppiesca è invece quella di natura più identitaria e normalizzante, che nelle tre kermesse metapolitiche valorizza più la continuità che non la rottura, più le croci celtiche e lo spirito comunitario che non i contenuti innovativi. I Campi Hobbit, quindi, come ridefinizione e rinnovamento di un immaginario interno alla destra e al partito, senza superamenti o strappi di sorta. (Si noti, di sfuggita, come l'entusiasmo di Fini e Alemanno per i Campi sia un fenomeno sorto a posteriori, a suo tempo essendo stati i due ex dirigenti missini fra i principali avversari della manifestazione).
Chi ha ragione? Tutti e nessuno, probabilmente. Di sicuro i Campi Hobbit – che peraltro non furono tre esperienze identiche fra loro ma ebbero storie ed esiti profondamente diversi – non furono quel fenomeno monolitico e unidirezionale che ciascuna delle tre letture vorrebbe far credere. Ma la risposta più importante e autentica è: chi se ne frega. Il nostalgismo fa sempre un sacco di danni, ma nel caso della nostalgia del fascismo c'è almeno la parziale scusante data dall'immane grandezza del fenomeno storico di cui si esprime il rimpianto. Il nostalgismo neofascista è invece untuoso, pericoloso e fastidioso, nonché privo di quella autenticità strapaesana e ingenua di molti dei nostalgici del fez. Quelli che “hanno fatto i Campi Hobbit”, infatti, immettono nel rimpianto per il tempo che fu il veleno dell'autoindulgenza e dell'automitologia, costruendo dal nulla narrazioni consolatorie e alibi per ogni diserzione, curricula immaginari e paludi limacciose in cui far attecchire radici che non dovrebbero gelare mai e che invece non sono semplicemente mai spuntate. Il male della destra italiana, il male vero, profondo, radicato, non è in Fini o in Berlusconi. È nell'Ego. L'Ego che guadagna i riflettori o anche quello che diserta e si eclissa. La destra neofascista, in Italia, è una gigantesca bolla di Ego. E in questo scempio che grida vendetta al cospetto degli Dei, la generazione dei Campi Hobbit c'è dentro con tutte le scarpe. Senza sconti, senza scuse. Colpevole come gli altri, più degli altri. E poi, perdio, è mai possibile che nell'arco di una quindicina d'anni non ci sia stato circolo, rivista, corrente, convegno, mostra, beffa mediatica e persino... scritta sui muri di cui Umberto Croppi non rivendichi la titolarità?
Ma di tutto questo, ovviamente, Tarantino, nato tre anni dopo l'ultimo Campo, non ha alcuna responsabilità. In definitiva, anzi, il suo saggio merita sicuramente l'attenzione di tutti coloro che siano interessati alla storia delle eresie politiche e dei fermenti culturali. Resta invece ancora da scrivere (ma, va detto, non era intenzione di Tarantino scriverla) un'analisi che tracci un bilancio complessivo su tutta la parabola del post-fascismo, affondando il bisturi dove va affondato, con lucidità serena ma spietata. Insomma, un Per farla finita con la destra che sia però meno letterario e individualistico dell'omonimo pamphlet di Stenio Solinas. Un atto d'accusa che non prenda di mira solo i più macchiettistici esponenti della destra diopatriafamiglia, come è sin troppo facile fare, ma che svisceri una ad una le responsabilità di un intero ambiente, ivi comprese (anche e soprattutto) le sue “teste pensanti” e le presunte avanguardie. Bisognerà, un giorno, guardarci in faccia e guardarci attorno e cercare finalmente di capire le ragioni del fallimento e del tradimento che ha per nome “destra neofascista italiana”.
Adriano Scianca

Nessun commento: