sabato 26 novembre 2011

Tatuaggi: roba da pirati e carcerati? No, amuleto da battaglia

Dal Secolo d'Italia del 26 novembre 2011
Dimmi che tatuaggio hai e ti dirò chi sei. Nonostante da “clandestino” sia diventato un fenomeno di massa – e, come tale, abbia perso inevitabilmente il fascino della trasgressione – il tatuaggio conserva una potenza espressiva tale da riuscire a dire molto di più del vissuto di una persona di quanto non sempre riescano a fare le parole. Mezzo di comunicazione bivalente: rivolto ai propri “simili”, a coloro che possono capirne il significato, ma anche suggestivo messaggio erga omnes.  
Una pratica che affonda la sua storia nei millenni più lontani. Mai sconfitta, malgrado l’ostilità dichiarata delle grandi religioni monoteiste e i pregiudizi che l’hanno accompagnata negli anni. Roba da marinai e carcerati, ripetevano i benpensanti. Cesare Lombroso arrivò ad affermare che il tatuaggio è segno inconfondibile della personalità criminale, la cui presenza, da sola, certifica la tendenza a delinquere del soggetto. E in effetti, per lungo tempo, a tatuarsi furono per lo più marinai e carcerati.
Non a caso, la parola tatuaggio, in inglese Tattoo – scrive Andrea Palmeri (foto in basso)nel suo fresco di stampa Tatuaggio. Dalle origini ai giorni nostri (Eclettica Edizioni, pp. 110 € 13) – fu coniata verso la fine del 1769 proprio da un “marinaio” d’eccezione: il capitano inglese James Cook, uno dei più grandi navigatori ed esploratori britannici. Era rimasto talmente affascinato nel vedere i corpi tatuati degli abitanti delle isole dal Pacifico dal fare sua la parola onomatopeica, Tatau, che ricordava il rumore del legno che batteva sull’ago. Una prova di coraggio cui nessun marinaio si sottraeva e che, una volta appresi i rudimenti di quell’antica arte, permise loro di raccontare, attraverso disegni simbolici, indizi di vita, origini, luoghi raggiunti o imbarcazioni.
Un’ancora tatuata sul bicipite – come quella sull’avambraccio di Braccio di Ferro – suggeriva che chi la portava era salpato da un porto atlantico. I tatuaggi con fucili e cannoni incrociati, invece, indicavano che il marinaio aveva prestato servizio presso la marina militare. Altrettanto inequivoci, i tatuaggi dei carcerati. Se nell’antichità gli schiavi venivano marchiati a fuoco per renderli riconoscibili in caso di fuga e per umiliarli, il tatuaggio carcerario, dall’Ottocento, non consiste più in una punizione ma, al contrario, in un rivendicazione d’orgoglio: messaggio di aperta ribellione al sistema carcerario e dichiarazione di guerra alla società borghese.
«I carcerati usavano il corpo in modo autonomo o antagonista – ci spiega Palmeri – per raccontare la propria condizione di detenuti e soprattutto di uomini. Affermano la loro identità in un ambiente che tende a privare gli uomini di ogni elemento distintivo». Date di detenzione, trascorsi penitenziari, precedenti appartenenze, ma anche temi amorosi, religiosi, vendette annunciate e icone imprevedibili. Come i tatuaggi raffiguranti Lenin o Stalin con cui i carcerati russi si coprivano il corpo, specialmente i punti vitali. Non per adesione alla rivolta bolscevica: più prosaicamente facendo affidamento sul fatto che i secondini sovietici non infierissero dove erano ritratti i padri della rivoluzione. Chissà se lo stesso spirito di sopravvivenza è alla base della scelta di Fabrizio Miccoli, funambolico attaccante del Palermo, di farsi tatuare il Che Guevara sul polpaccio. Un invito ai difensori – almeno a quelli devoti al Che – a evitare entrate moleste?
Difficile dirlo, una cosa è certa: i calciatori hanno avuto un ruolo preponderante nel rendere il tatuaggio una moda, facendogli perdere al contempo la valenza simbolica e la pessima reputazione che si portavano dietro, trasformandolo in un inoffensivo accessorio per l’abbellimento del corpo.
Finalità diametralmente opposta a quella dei popoli guerrieri nordeuropei, che usavano pitture indelebili per rendere più terrificanti le facce e i corpi sul campo di battaglia. Giulio Cesare nel De Bello Gallico riferisce: «Tutti i britanni si tingono onde essere nelle pugne di aspetto più orrendo». La parola inglese Brith (dipingere) deriva, per l’appunto, da Britanni. Non solo: il numero dei tatuaggi era riferito alle battaglie combattute e quindi era proporzionale al valore di un guerriero. Nei calciatori, invece, il numero sembra più che altro un personale contatore di narcisismo: Ezequiel Lavezzi, per citarne uno, ne ha più di dieci; Marco Materazzi ben ventitré, pari al suo numero di maglia.
«I greci la consideravano una pratica barbara ed estranea all’ideale ellenico di bellezza che un semplice corpo nudo rappresentava – sottolinea Palmeri – mentre tra i romani, nella fase di espansione dell’impero, si diffuse l’usanza di fare del tatuaggio un simbolo di fedeltà e devozione all’imperatore». Il più diffuso tra i legionari era la sigla SPQR (senatus populusque romanus) che Russel Crowe, nei panni del generale Massimo, si strappa via dalla pelle con una lama acuminata quando l’imperatore viene assassinato dal figlio Commodo nella finzione cinematografica de Il gladiatore, il film di Ridley Scott. Francesco Totti, invece, un gladiatore s’è l’è fatto imprimere sul braccio destro. Più di lui, però, a tenere viva la tradizione guerriera del tatuaggio ci pensa il mondo ultras. Già dalla metà degli anni Settanta, del resto, i supporters di sua maestà avevano iniziato a tatuarsi scritte e stemmi inneggianti alla propria squadra. Come non ricordare il tatuaggio con il cane simbolo dello Shadwell Town mostrato dal poliziotto John – protagonista di Hooligans (il film del 1995 diretto da Philip Davis) – che, dopo un periodo da infiltrato tra i tifosi dello Shadwell, diventa un hooligans dei più duri. Nelle curve italiane, i primi pionieri dei tatoo con nome e logo della squadra del cuore fanno capolino negli anni Ottanta, mentre il fenomeno esploderà nel decennio successivo: fede sportiva come stile di vita impresso sulla pelle e fisiologica contrapposizione alle forze dell’ordine.
Se il potenziale sovversivo del tatuaggio è stato sfruttato dal movimento punk per suscitare stupore e indignazione, gli skenheads cercano di creare soggezione. Simbolo per eccellenza, “politicamente” bipartisan, è la ragnatela sul gomito: ci cresceranno le ragnatele sul gomito a forza di stare appoggiati tutto il giorno al bancone del bar, sembrano dire. Oppure la palla da biliardo col numero otto: nel gioco del pool è l’ultima che deve essere messa in buca, metafora del militante irriducibile. La vocazione antagonista del tatuaggio resiste in pochi gruppi politici, che ancora assegnano al tatuaggio un valore non decorativo ma identitario e aggregativo. CasaPound, per sottolinearne l’importanza, ha dato vita nel 2008 a un centro tatuaggi: Tango Core Tatoo.
«Per noi – ci spiega – il tatuaggio è un amuleto nella battaglia. Non una medaglia, qualcosa di più. Niente a che vedere con l’autocompiacimento o con l’ambiente fashion. Eravamo tatuati venti anni fa, quando era “criminale”, e lo saremo tra altri venti, quando “gli altri” se li cancelleranno». Perché il deterrente principale, per i più, non è il dolore o i rischi igienico sanitari – il tatuatore non è l’improvvisatore di un tempo, armato di aghi di fortuna in sottoscala polverosi – ma l’irrevocabilità dell’incisione. «I tatuaggi – continua Iannone – li hai scelti provando un sentimento preciso e non puoi farci niente, neanche quando ti ricordano qualcosa di sbagliato. È la tua storia e devi esserne fiero, perché ogni uomo o donna che si rispetti è fatto di errori clamorosi, di scelte sbagliate, di sfide incredibili, di amori impossibili e di sogni infranti, ma è bello ricordarcelo sempre, perché abbiamo vissuto e siamo ancora incredibilmente vivi. E quando non ci saremo più – conclude – rimarranno le nostre gesta e i nostri tatuaggi. Altro che diamanti...».
Roberto Alfatti Appetiti

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Come in ogni cosa che scrivi lasci traspirare un sentimento profondo.
La maggior parte dei Tatuati ( veri) si riconosce nelle tue parole, il tatuaggio è una pagina del proprio diario di vita, noi li abbiamo fatti in tempi non sospetti, mentre i tatuati (finti)
li cancelleranno.
Fra trent'anni saremo pieni di vecchie che memori di un tatoo sul fondo schiena fatto in età "soda" imprecheranno la propria pelle che combatterà contro la forza di gravità...
Roberto Marangon

Anonimo ha detto...

Arrivo con un bell'annetto di ritardo.


Louise J. Kaplan - Falsi idoli (Erickson, 2008)
3/512345
( 2 - user rating )
Recensioni libri


La parola feticismo non è solo la passione per pratiche sessuali bizzarre. Oggi è di più. E’ il cercare un senso tangibile in una vita che si svuota di significato, è il colmare il vuoto di identità e relazione. E’ una vera e propria strategia feticista che soffoca la nostra libertà.




Falsi idoli
Le culture del feticismo
Louise J. Kaplan
Pagine 192 - € 21.50

Questo libro parla della strategia feticista e delle culture che la promuovono e alimentano. La parola feticismo, nel pensare comune, è la passione per pratiche sessuali bizzarre. Leggendo questo interessante libro si scoprirà che non è cosi. Almeno, non solo.
In generale il termine feticismo indica la venerazione per certi oggetti, il feticista è la persona che la pratica e il feticcio è l’oggetto in questione.
La Kaplan analizza la strategia feticista da più punti vista, ma soprattutto quello psicologico, indicandone ben 5 principi fondamentali. In generale il principio della strategia feticista consiste nel trasformare qualcosa di strano e intangibile in qualcosa di familiare e tangibile.
L’oggetto feticcio può essere di qualsiasi tipo, come una scarpa, una borsa Prada, i SUV, giacche Chanel, tatuaggi; la strategia feticista mette in rilievo un dettaglio particolare per poter distrarre l’attenzione da altre caratteristiche considerate inquietanti, mentre il feticcio è impiegato per vincolare e dominare, soffocare e sopprimere energie ignote. Ben presto sarà chiaro che l’oggetto feticcio è inoffensivo, facile da trovare e sempre disponibile, mentre un essere umano ha un desiderio autonomo e deve essere corteggiato e persuaso a concedersi.
La pulsione di morte prende quindi una tinta erotica.
Il libro esplora le fantasie degli uomini e delle donne, poiché la nostra vita quotidiana è basata sulle culture del feticismo che sostituiscono i valori spirituali con oggetti materiali che catturano la nostra attenzione con il loro scintillio in modo da nascondere più agevolmente il loro contenuto traumatico. Lo scopo del libro è quello di riportare in superficie ciò che è stato rimosso per poterlo riconoscere.
La Kaplan dischiude nuovi significati della strategia del feticismo, analizzando diversi casi di feticismo (la scrittura sulla pelle, il cinema, il feticismo delle merci, la fasciatura dei piedi) incrociando psicoanalisi e sociale: siamo tutti robot da reality-show con scambi affettivi distorti.
Un libro scritto benissimo, coinvolgente e scorrevole che ha un grosso obbiettivo: scovare e smascherare i falsi idoli che soffocano la nostra libertà.