Dal Secolo d'Italia del 29 gennaio 2012
«Cos’hanno in comune, oggi, il socialista Jack London, il poeta libertario Garcia Lorca, la bandiera degli omosessuali Maria Callas, l’ex trotzkista Simone Weill e l’ubriacone Charles Bukowski?». Marco Iacona apre con questa domanda, la prima di tante “provocazioni”, il suo ultimo libro: Album di un secolo. Icone di un novecento postideologico (Rubbettino, pp. 246, € 14), racconto – come spiega la quarta di copertina – di un secolo senza nemici né alleati, imprevedibile, aperto come un film di Woody Allen. Se allo studioso catanese certi atteggiamenti antitecnologici del regista newyorkese ricordano Ernst Jünger da giovane, il più volte citato “Hank” Bukowski è «la continuazione di Louis Ferdinand Céline con maniere non del tutto dissimili» e il “papà” della pop art Andy Warhol, campione del materialismo, una personalità accomunabile a quella dell’ex “repubblichino” Giano Accame, «uniti come sono – ci fa notare – dall’idea dell’inservibilità delle barriere come cifra inevitabile del tempo in cui vissero e da un atteggiamento non conformista, postideologico, a volte persino anti-ideologico verso la modernità».
Iacona nell’assemblare uno spiazzante quanto suggestivo patchwork culturale – che per alcuni risulterà inevitabilmente urticante – si appella al “diritto di scandalizzare” rivendicato da Pier Paolo Pasolini nella sua ultima intervista, il 31 ottobre del 1975, due giorni prima di morire. «Essere scandalizzato è un piacere e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista», affermò in quell’occasione (la presentazione francese di Salò o le 120 giornate di Sodoma) Pasolini, di cui Iacona è competente estimatore. Tanto da avergli dedicato il suo blog, battezzato per l’appunto “Scandalizzare è un diritto”. E un piacere è leggere questo libro, composto in gran parte dalla rielaborazione di articoli già pubblicati dall’autore sul Secolo d’Italia. Non si tratta, però, di una mera antologia ma di un’opera più ambiziosa: quella di “riscrivere” il novecento al netto delle incrostazioni ideologiche, ordinandolo non sugli eventi o sui punti di vista di parte ma attraverso profili diversi ed esemplari di un secolo incandescente di creatività. Lo ha fatto senza camuffare la propria provenienza culturale – che non né illuminista né neomarxista – e soprattutto senza lasciarsi incapacitare dalla rassegnazione alla (presunta) egemonia culturale di sinistra. Al contrario, Iacona si è andato a “riprendere” autori arruolati d’ufficio dagli avversari, da Pasolini all’amato Cesare Pavese, da Woody Allen ai Simpson, lanciando la sua sfida sul terreno apparentemente neutro dell’immaginario e della cultura di massa e conciliando personaggi in antitesi tra loro.
«Leggendo e assaporando di tutto e mettendo ogni cosa a profitto – spiega Luciano Lanna nella prefazione – quello di Icona è uno sguardo che implica la capacità di porsi al di là della dialettica aut aut attraverso quella dimensione dell’ossimoro che, per dirla con Alain De Benoist, ci fa pensare simultaneamente ciò che per troppo tempo è stato pensato contraddittoriamente».
Alla domanda avanzata nell’incipit, Iacona (si) risponde citando un giornalino in ciclostile vecchio di sessant’anni, dal titolo significativo: Giovinezza! (con tanto di punto esclamativo). A redigerlo «un gruppo di camerati che reggevano sulle spalle l’esperienza di un conflitto, per loro, non ancora concluso». Giovani che leggevano Ernst von Salomon, Louis-Ferdinand Céline, Maurice Bardèche, René Guénon e soprattutto Julius Evola, al quale Iacona nel 2008 ha dedicato Il maestro della tradizione. Dialoghi su Julius Evola (Controcorrente).
«Oggi quel mondo non esiste più, è un stagione da consegnare alla memoria del libri. La guerra, insomma, quella guerra, è finita da un pezzo», scrive. Classe 1964, appartiene alla generazione dei baby boomer italiani del secondo dopoguerra, la prima a godere di un benessere senza paragoni nella storia del mondo moderno, messo duramente a repentaglio negli ultimi anni. Generazione che, paradossalmente, si è formata sugli autori maledetti provenienti dalla patria degli ex nemici e ha sognato con film, romanzi e supereroi di carta e inchiostro provenienti d’oltreoceano.
«Forse, per la prima volta, la mia generazione ha avuto la possibilità di apprezzare quel mondo globalizzato che gli si apriva davanti con prospettive di nuovo conio. Già dai Sessanta, lo stile di vita americano era il modello vincente per i giovani universitari. In testa a ogni classifica di gradimento, non c’era John Fitzgerald Kennedy ma al primo posto nella top ten degli eroi giovanili c’era invece Jack Kerouac e con lui la Beat generation». Miti che, in Italia, sono stati adottati da una sinistra a corto di eroi, difettando i loro del necessario appeal. Appropriazione indebita, se si considera come Kerouac di farne l’icona s’era già bello che stufato quand’era in vita. «È sempre stato violentemente contrario a qualsiasi genere di ideologia di sinistra», testimoniò l’amico William Burroughs.
«Una generazione – sottolinea ancora l’ex direttore del Secolo d’Italia – che si è riconosciuta soprattutto nei film, nei romanzi, nelle canzoni e nei programmi televisivi, e che ha provato in prima persona a fare cinema, giornali e giornaletti, musica e persino la radio». Si è formato così un immaginario giovanile in larga parte condiviso che, alimentato dalle contestazioni studentesche e dalla cultura rock, si è “contaminato” con le avanguardie europee d’inizio secolo, surrealismo, futurismo, dadaismo, e con i successivi movimentismi di casa nostra. Sintesi nuove, diverse rispetto al mondo del 1945 ma anche a quello, meno lontano, del 1978. Se le generazioni precedenti avevano indossato la divisa da soldato, chi di prima e chi di seconda mano, quelle successive, in particolare dagli anni Ottanta in poi, hanno dissotterrato l’ascia di guerra e preteso quell’happy end – conclude Iacona – «che appartiene alla mia generazione e con esso la rivalutazione del tempo libero e del confronto privo di pregiudizi».
Roberto Alfatti Appetiti
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