Articolo di Maurizio Cabona
Dal Secolo d'Italia del 21 gennaio 2012
Nanni Moretti presiederà la giuria del prossimo Festival di Cannes (16-29 maggio), dopo esservi stato giurato nel 1997 e aver vinto, con La stanza del figlio, la Palma d'oro nel 2001, Non era questo il suo miglior film: a nobilitarlo agli occhi dei giurati, oltre ai meriti pregressi, fu l'occasione di mandare agli italiani un segnale di dissenso per avere eletto presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Non è compito delle giurie fare queste cose, però il mondo è questo. Come le Olimpiadi, i campionati europei e mondiali, le Expo, ecc., i grossi Festival non sono manifestazioni neutre, di pura estetica. Innanzitutto esse servono a "mostrare i muscoli", talora alla lettera, degli Stati che li organizzano; e poi per stabilire le gerarchie del prestigio all'interno delle categorie che vi sono rappresentate. Le quali a loro volta hanno i loro preferiti e i loro aborriti.
I professionisti del cinema costituiscono una lobby e la parte di essa che alberga nei grossi Festival ha anche un'ideologia, che oscilla tra il politicamente corretto e l'indignazione professionale. Ma non tutti sono ideologi di risulta. Zhang Yimou, Ang Lee, Chen Kaige, Clint Eastwood, Emir Kusturica, Ken Loach, John Boorman, Quentin Tarantino, Paolo Sorrentino, Sean Penn, Madonna, Jodie Foster,Mel Gibson, Robert Guédiguian, Gus Van Sant, William Friedkin, lo stesso Nanni Moretti, sono persone che sanno assumere posizioni non conformi e pagarne il prezzo d'impopolarità, se occorre.
E poi, se si guarda agli emergenti di successo, L'artista di Michel Hazanavicius s'è imposto per quel che è, un reazionario capolavoro come non se ne vedeva a Cannes dal Gattopardo di Visconti. E ora L'artista è in lizza per vari Oscar, incluso il principale, dopo essersi affermato nel Golden Globe. È quindi errato ritenere omogeneo - e unito come un sol uomo in un complotto - un ambiente di migliaia e migliaia di intellettuali e imprenditori (un film può essere arte, ma il cinema è industria) di Paesi diversissimi.
A metterli d'accordo riesce solo l'ostentazione del pregiudizio anti-culturale, più che anti-intellettuale. Opporre un attento silenzio, non una berciante disattenzione, eviterebbe all'Italia di trovarsi nemici che non vorrebbero esser tali. Cautela da praticare anche in casa, in questi ultimi mesi, dove gli ultimi schiamazzi concernono proprio le nomine dei direttori delle due maggiori rassegne cinematografiche internazionale aventi sede in Italia: Mostra del Cinema di Venezia e Festival (ex Festa) del cinema di Roma.
Per ora pare che tutto si risolva con un giro di valzer: chi dirigeva la Mostra di Venezia, Marco Mueller, dirigerà il Festival di Roma; chi aveva diretto la Mostra di Venezia prima di Mueller, Alberto Barbera, è tornato alla Mostra. Senza posto potrebbe restare Piera Detassis, che dirige (e soprattutto ha fondato) la Festa, poi Festival di Roma.
Nei loro riguardi la stampa si polarizza solo secondo schieramenti politici. Le qualità professionali passano in second'ordine. Eppure ognuno dei "contendenti" ha doti ed esperienza, che sarebbero una ricchezza per l'Italia, specie ora, nella riorganizzazione della sua senescente cultura. Infatti, finita la rissa "dei capponi di Renzo", in corso in queste ore, resterà la questione del declino. Il taglio di ogni (o quasi) spesa per la cultura, la riduzione di quelle per l'istruzione sono parse scelte obbligate. Non lo erano. Che l'immagine della Nazione si riduca a quella fornita dalle tv, che l'intellettuale sia tale solo se va in onda sono episodi di un dramma le cui conseguenze saranno presto chiare.
Privilegiare la tv perché più influente sul grosso pubblico ha assicurato maggiori entrate, non maggiori livelli di cultura media. Sviluppare una tecnocrazia (ricordate il trittico "inglese, intrapresa, internet"?) è lecito, quando la potenza nazionale si misura in Pil. Ma ciò non ha portato a Montale: ha portato a Monti e a Montezemolo. A costoro toccherebbe lasciare conti in ordine, ma s'è visto che non sempre ci riescono.
La Nuova Ricostruzione è simile a quella del Dopoguerra, soprattutto per il regime armistiziale in cui si trova l'Italia. Uno dei Paesi che ce l'hanno imposto, la Francia, andrebbe però presa come modello per la sua difesa dell'«eccezione culturale»: ovvero la cultura non è tenuta a dare immediato reddito. La difesa, perseguita dalla Francia della continuità del Festival di Cannes è un esempio. Gilles Jacob, tuttora presidente del Festival, ci lavora dal 1978; Thierry Frémaux, il direttore generale, ci lavora dal 1999. È anche così che Cannes ha la reputazione di serietà che la Mostra di Venezia, coi suoi esigui mezzi e qualche goffaggine governativa, ha lentamente compromesso. D'altronde l'Italia ha saputo imporre anche il Festival di Roma. Ci sono quindi in attività due importanti centri di attrazione estetica e di vivacità di pensiero. È una vivacità spesso di sinistra o di estrema sinistra? Non è colpa dell'assiduità interessata delle medesime, ma del disinteresse del centro e della destra, dedite alla pura gestione più che all'impura contemplazione (dei film).
Maurizio Cabona
Nessun commento:
Posta un commento