Da Charta minuta n. 5 - novembre/dicembre 2011
«Il secolo delle rivoluzioni è dietro le nostre spalle. C’è da ricomporre l’Italia scissa, l’Italia frantumata. E la riconciliazione non può avvenire che su una ricomposizione di una storia italiana». La lucidità di capire quando una stagione è arrivata al capolinea. Il coraggio di aprirne una nuova, gettando all’aria comode rendite di posizione. Battere sentieri inesplorati. Confontarsi con tutti, senza pregiudizi. Di uomini come Beppe Niccolai, scomparso il 31 ottobre del 1989, la politica italiana avrebbe un gran bisogno. Soprattutto i più giovani, intrappolati come sono nel bipolarismo coatto, armati gli uni contro gli altri nella stucchevole guerra civile tra berlusconiani e antiberlusconiani.
«Immergersi nella realtà, essere figli del proprio tempo, accettare di misurarsi con le contraddizioni dell’oggi, costruire elemento di rottura contro chi mira a conservare l’esistente, essere protagonisti di libertà contro il qualunquismo imperante». Sono questi i consigli che nel 1984 Beppe Niccolai rivolge ai giovani del Movimento Sociale Italiano in vista del XIV congresso del partito. Poco sopportati e guardati con sospetto, il più delle volte i ragazzi del Fronte della Gioventù sono usati come mera manovalanza. Niccolai saprà riaccenderne gli entusiasmi. Un amore ricambiato, quello tra i giovani militanti e il non più giovanissimo Niccolai, pisano della classe 1920, non solo per il suo passato di volontario di guerra e prigioniero non collaboratore nel Fascist Criminal Camp di Hereford. È un esempio prima ancora che un maestro. Sobrio, attento, disponibile, allergico a ogni ostentazione, nemico dei privilegi. Capace di coniugare rigore morale e apertura mentale. «Una figura fresca, creativa, rigorosa, carismatica», ebbe a definirlo Gianni Alemanno, leader del Fronte della Gioventù, il primo dei tanti giovani che si affrettarono a sottoscrivere “Segnali di Vita”, la mozione pensata da Niccolai per dare la scossa a un partito che va avanti per inerzia, incapace di tenere il passo con un mondo che stava cambiando. Paradossale che a sfidare il verbo almirantiano non fosse l’eterno rivale Pino Rauti ma un missino doc come Niccolai, fino a poco prima fedelissimo del segretario.
«Ad un certo punto il conformismo almirantiano diventa talmente soffocante da suscitare tra gli stessi amici del segretario, primo fra tutti Beppe Niccolai, il desiderio di creare una qualche forma di confronto critico, attraverso un’aggregazione informale che più tardi si tradurrà nella formazione della corrente Proposta Italia», così scrive Marco Tarchi nel libro-intervista Cinquant’anni di nostalgia (Rizzoli, 1995). Un anno dopo, nel 1985, Beppe Niccolai aderirà all’innovativa corrente di Domenico Mennitti, l’esponente più liberal del partito: modernizzatore per vocazione e non per opportunismo.
A ricostruire con dovizia di particolari e preziose testimonianze il percorso umano e politico di Niccolai è stato Alessandro Amorese in Beppe Niccolai. Il missino e l’eretico (Eclettica Edizioni, pp. 270), libro la cui seconda edizione tornerà prossimamente in libreria. Felice, sin dal titolo, la sottolineatura di come il politico pisano seppe rimettersi in gioco, aggiornarsi, fare ammenda dei propri errori – uno si tutti: non aver capito con la necessaria tempestività l’importanza dell’opzione metapolitica – e agire di conseguenza, anche a costo di pagare un prezzo salato. Un prezzo che, ovviamente, gli fu fatto pagare per intero. Lasciandolo fuori dal Parlamento, come prima cosa. Nel 1985 si apre uno spiraglio: c’è la possibilità di poter eleggere un senatore in più nel collegio lombardo. Durante il comitato centrale chiamato a definire le candidature un giovane dirigente del Fronte, Adolfo Urso, prende la parola e propone, pur senza conoscerlo personalmente, la candidatura di Beppe Niccolai. L’assemblea applaude. Almirante è spiazzato ma non può che verificare la disponibilità dell’ex parlamentare pisano che, a sorpresa, rifiuta. «Non potevo accettare una candidatura fuori dalla mia terra, se avessi deciso di ripresentarmi alle elezioni, mi sarei fatto votare dalla mia gente, senza paracadute o collegi quasi sicuri». Dichiarazioni che oggi sembrano folli, incomprensibili. E poi ci sono i giovani da mandare avanti. «Mi stavo attaccando troppo alla poltrona», confida all’amico Giano Accame.
La trasformazione è irrevocabile: all’uomo di apparato, a suo agio tra federazioni e comizi, brillante polemista e gladiatore d’aula, giornalista sempre pronto a fustigare ogni malcostume politico, si è sostituito l’eretico: l’intellettuale insofferente, tanto severo con se stesso da fare autocritica ma anche da pretenderla dal suo partito – ad esempio sugli errori compiuti nei confronti della contestazione giovanile del ’68 – in un mondo, quello neofascista, che sino a quel momento s’era nutrito di granitiche certezze, coltivando uno “splendido isolamento”.
Gliene diede atto, pochi mesi dopo la morte, Franco Franchi. Commemorandolo nella sua qualità di presidente del congresso missino di Rimini del 1990 – il primo senza Niccolai, ma anche senza Giorgio Almirante e Pino Romualdi – ne evocò la presenza: «A una cert’ora, magari di una seduta notturna, salirà alla tribuna il volto tormentato e corruso del ghibellino di Pisa, Beppe Niccolai, e ci porrà mille domande, animato da un pensiero senza riposo».
Il motivo della rottura con Almirante? La cosiddetta goccia che fece traboccare il vaso. «Disse che era stato deluso dall’operazione “Eurodestra” – riferisce Tarchi – e che aveva visto il segretario in mezzo a una folla in uniforme azzurra, in un comizio in Spagna, gli aveva dato un’impressione pessima, che richiamava un improbabile passato». Rifiuto di ogni nostalgismo, insofferenza per il conservatorismo da partito d’ordine, per la rassegnazione alla prospettiva di fare da stampella alla Democrazia Cristiana. «È la DC che ci ha sradicati rendendoci sconosciuti gli uni agli altri – ripeteva – e rendendoci, in un effimero benessere, infelici. Tutta la mia modesta battaglia politica è stata indirizzata a far capire alla gente che non si costruisce una società migliore votando per paura o per quieto vivere. Il prezzo della viltà è sempre il male».
E coraggioso è, invece, Bettino Craxi. Nel 1985, in occasione della crisi di Sigonella, Niccolai fa approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine del giorno di sostegno al segretario socialista: in nome dello “scatto” di orgoglio nazionale e dell’idea di un’Europa forte, non subalterna ai due blocchi, che si svincoli dall’egemonia statunitense, senza che a prevalere sia la linea utilitaristica e mercantilistica. Il laburismo nazionale di Craxi, per Niccolai come anche per Accame, rappresentava la novità in grado di minare il bipolarismo Dc-Pci e il posizionamento stesso del Msi alla destra del sistema politico.
La testimonianza di Mennitti, riportata nel libro di Amorese, conferma al riguardo la crescente distanza tra Almirante e Niccolai: «Quando si manifestò con chiarezza la suggestione craxiana del “socialismo tricolore”, Niccolai chiese ad Almirante di aprire un fronte di riflessione nuova, privilegiando la disponibilità ad interloquire con noi dichiarata da una parte importante della classe dirigente socialista. Non a caso Msi e Psi furono i due partiti che presero posizione chiara contro la “conventio ad excludendum”, che aveva tenuto fuori dal gioco politico il movimento di Almirante. Però alla fine si incamminarono su due strade diverse: Almirante continuò a sostenere la tesi del “fascismo del 2000”, poi ripresa da Fini dopo la successione alla segreteria; Niccolai venne al congresso di Sorrento del 1987 condividendo e sottoscrivendo la mozione di “Proposta” che sosteneva la necessità che la destra facesse il salto dalla testimonianza alla politica».
Per fare questo occorreva un partito nuovo, snello, sburocratizzato, con un movimento giovanile più autonomo e senza più strutture inutili. Non più mere sedi elettorali da riservare alle alchimie partitiche ma ponti aperti verso la società. In conclusione Proposta Italia chiede una svolta, vuole un partito che non sia più esclusivamente anticomunista ma anche “anticapitalista e antiborghese”, che sia anche alternativa antropologica e culturale.
Una convergenza naturale, quella tra Niccolai e Mennitti, sviluppatasi prima della nascita della componente di “Proposta” sul mensile che portava quel nome e ne costituiva la base culturale e che, per primo, creò le condizioni per aprire quel dibattito interno, ma anche e soprattutto rivolto all’esterno, che molti anni dopo portò alla nascita di Alleanza Nazionale. «Noi avevamo vissuto per anni rinchiusi nel castello delle nostalgie, perché fuori non ci erano consentiti spazi di iniziativa politica, potevamo solo gestire la sopravvivenza – ha spiegato Mennitti – però l’evoluzione del Psi da partito alleato (prima del Pci e poi della Dc) a forza autonoma alla ricerca di un protagonismo proprio, aveva fatto saltare il sistema del dopoguerra, quello dominato dal principio della esclusione della destra. Quindi bisognava elaborare un progetto finalizzato non all’opposizione eterna ma alla conquista – quando le condizioni lo avrebbero consentito – del potere. E definire un programma, porre obiettivi realistici, scegliere le alleanze. Almirante era bloccato dal timore che, di fronte ad una operazione così rivoluzionaria e complessa, il vecchio mondo missino avrebbe perso la coesione, smarrito il patrimonio dell’unità. Così ripiegò sulla purezza ideologica, che nei partiti estremi costituisce una costante tentazione di fuga all’indietro, di liquidare con il marchio del tradimento il tentativo di innovare. “Proposta” fu lo strumento che liberò il dibattito interno dalla gabbia della fedeltà strumentalmente intesa e lo trasferì sui campi verdi della modernità intellettuale e politica».
Tra Segnali di Vita e Proposta Italia c’è un filo rosso che si riannoda con l'esperienza di Ideazione e poi la più recente di Charta Minuta nel rinnovato tentativo di modernizzare la politica e tenere vivo un dialogo a tutto campo, anche con i nemici di ieri (come Niccolai fece con Adriano Sofri, che pure gli aveva scatenato la piazza contro). Con chiunque abbia a cuore, ancor prima dell’interesse di parte o di partito, le sorti – come dicevamo all’inizio – di un’Italia frantumata, se possibile persino di più rispetto a quella conosciuta da Niccolai. «Il tormento delle idee e il dubbio – come ci ha insegnato Beppe – è sempre meglio della prudenza dei plaudenti. Non ascoltano, applaudono: vivono di suoni. Confondono il rumore in certezze. Si fidano. Si concedono. Oppongono la prudenza dello stare con chi pensa per loro e li libera di ogni fastidiosa riflessione. Si fanno spettatori e protestano vibratamente con chi non segue, zitto, lo spettacolo».
Roberto Alfatti Appetiti
2 commenti:
Roberto ci penso e ci ripenso ma, sconsolato, debbo ammettere che nell'attuale classe politica non trovo nessuno che possa reggere il confronto con Beppe Niccolai. Anche io con grande nostalgia ricordo quanto fascino esercitassero su di me le sue coraggiose analisi controcorrente. Era bello allora fare politica, oggi proprio non lo so (se non ripartendo dal lascito di quel grande "ribelle pisano").
Era bello, Giovanni. Ero orgoglioso di appartenere al Msi, con tutte le contraddizioni che quel partito pure aveva. Raramente sono stato altrettanto orgoglioso delle mie scelte politiche :)
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