martedì 17 gennaio 2012

Vola come una farfalla, punge come un'ape. Muhammed Alì compie settant'anni.

Dal Secolo d'Italia del 17 gennaio 2012
La leggenda vuole che Sylvester Stallone trovò l’ispirazione per creare Rocky Balboa dopo aver assistito all’incontro di boxe del 24 marzo 1975 tra Muhammad Alì e Chuck Wepner. Quest’ultimo era un pugile sconosciuto ma con la forza e l’ambizione necessaria per mettere in difficoltà il campione del mondo, esattamente come farà il suo Rocky con Apollo. La determinazione di Wepner, lo stile aggressivo di Rocky Marciano e l’indistruttibilità di Cassius Clay: questi gli ingredienti con cui Stallone ha fabbricato il suo mito di celluloide, dosando la realtà con la fantasia che, si sa, è più generosa.
Se Cassius Clay sarà costretto dal morbo di Parkinson a lasciare il ring, Rocky farà altrettanto per evitare di diventare cieco ma – potere rigenerante della fiction – tornerà a combattere quasi sessantenne, come se nulla fosse. La vita reale, però, raramente ci offre il sequel. Nel 1978 la DC Comics pubblica un fumetto one-shot dal titolo Superman vs. Muhammad Alì, in cui il supereroe più amato d’America e il mito vivente del pugilato si alleano per fermare un’invasione aliena della Terra, ma il vero Cassius Clay – the greates, com’era chiamato – sul ring fa sempre più fatica e mostra i primi segni della malattia che gli sarà diagnosticata nel 1984, pochi anni dopo il ritiro.
Forse ha ragione chi sostiene che non servano miti ma esempi e l’ex pugile non si è arreso alla malattia, l’ha affrontata in modo esemplare. E al tappeto, lui che in carriera ha subito un solo ko, non c’è andato. Festeggia oggi settant’anni, tanti ne sono passati da quando nacque a Louisville il 17 gennaio del 1942. Una vittoria insperata, stupefacente per chi lo ricorda stringere, da teodoforo, la fiaccola all’Olimpiade di Atlanta del 1996 con la mano già tremolante. In quell’occasione gli fu anche riconsegnata la medaglia d’oro vinta a Roma nel 1960, poiché – come narra un’altra leggenda – si dice che abbia gettato l’originale in un fiume in segno di protesta contro la discriminazione razziale del suo paese. Un ristoratore si sarebbe rifiutato di servirlo perché nero. Convertirsi all’Islam, del resto, non ne aveva aumentato la popolarità. Rifiutarsi di combattere in Vietnam, poi, gli costò il ritiro temporaneo della licenza da parte delle commissioni atletiche pugilistiche statunitensi. «Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato “negro”», disse. Vola come una farfalla, punge come un ape. Non ha mai smesso di farlo, anche senza guantoni.
Roberto Alfatti Appetiti

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