Dal Secolo d'Italia del 14 febbraio 2012
Non può fermarsi chi è stato otto volte tricolore nei quattrocento metri, con o senza ostacoli. Neanche quando l’ostacolo è tanto più insidioso perché nascosto, disonesto come può esserlo un pregiudizio. Quell’ostacolo è il tabù che ancora avvolge la mattanza delle foibe e il dramma dell’esodo giuliano-dalmata, popolo di cui Ottavio Missoni, sindaco “onorario” del libero Comune di Zara, nato a Ragusa da padre di origine giuliana e madre dalmata, è uno degli instancabili testimoni. Italiano per scelta e per vocazione.
Lo stilista ha compiuto novantuno anni lo scorso 11 febbraio ma non s’è certo messo in pantofole e, prima di spegnere le candeline, è intervenuto alla celebrazione ufficiale organizzata dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia A.N.V.G., in collaborazione con il Comune, la Provincia di Varese e la Consulta studentesca, proprio l’11 febbraio presso l’aula magna dell’Università degli studi dell’Insubria in via Ravasi.
Davanti a una platea composta in larga parte di giovani, Missoni è tornato a denunciare «la pulizia etnica in cui 360mila italiani hanno pagato un conto materiale e morale enorme». Un prezzo che non può essere risarcito e che il successo internazionale delle sue creazioni – la mitica coloratissima linea Missoni – non può in alcun modo lenire. «Siamo diventati esuli permanenti – ha spiegato l’ambasciatore della nostra moda nel mondo – perché l’emigrante almeno può consolarsi sognando di tornare nel suo paese, mentre a noi anche questo sogno ci è stato tolto».
Missoni tuttavia, non si è arreso. Neanche dopo la sconfitta di El Alamein, quando dopo la battaglia venne fatto prigioniero dagli alleati. «Sono stato ospite di sua maestà britannica», ha ricordato con l’ironia che lo caratterizza. Non un giorno. Quattro anni in un campo di prigionia in Egitto. Senza mai piegarsi. «A Badoglio che ci invitava a collaborare con gli inglesi, io e un gruppo di amici ci rifiutammo: “Ma chi cazzo è 'sto Badoglio?”. Non godeva delle nostre simpatie». Torna in Italia soltanto nel 1946, ha 25 anni, tanti, forse troppi per uno studente liceale. «Sono riuscito a non fare le scuole grazie alla mamma: la troppa educazione è diseducativa». Quel che gli sarebbe servito l’aveva già appreso. «L’unica cosa era il disegno, era facile perché non te lo insegnava nessuno».
A Milano frequenta il giro del Bertoldo, il bisettimanale umoristico, stringe amicizia con Giovannino Guareschi e Marcello Marchesi, sopravvive improvvisandosi eroe da fotoromanzo. L’interesse per la moda nasce quasi per caso, grazie a due persone importanti: il suo ex ct di atletica Giorgio Oberweger e Rosita Jelmini, la moglie. Con il primo dà vita a una piccola società, un artigianale laboratorio di maglieria, la Venjulia. Con Rosita, conosciuta nella Londra delle Olimpiadi del 1948, metterà su famiglia – una bella famiglia italiana con tre figli – e costruirà il proprio futuro nella moda che conta. Iniziando con un capannone in affitto a Gallarate, realizzando le prime tute sportive, qualche costuma in lana e finendo per produrre quegli originali colorati e leggeri capi di abbigliamento che diventeranno un must in ogni angolo del pianeta.
«Devo ancora capire come è arrivato il successo, le copertine dei settimanali francesi, la prima pagina dell’americana Woman’s Wear Daily... All’epoca si lavorava e di soldi ce n’erano pochi. Eravamo sempre in rosso e quando abbiamo cominciato ad avere qualche lira, mi sentivo l'uomo più ricco del mondo. Da allora ne abbiamo fatte di tutti i colori». Letteralmente.
A chi negli anni gli ha chiesto quale fosse il suo segreto, com’è stato possibile che un esule, per di più reduce di guerra, avesse fatto una fortuna del genere, ha risposto così: «Il mio lavoro era fare disegnini. L’ispirazione ti viene da quello che hai detto con gli amici, dal vino che hai bevuto, da quello che hai letto, da quello che hai pensato».
Piccole verità che nessun collega ammetterebbe, neanche sotto tortura. «Per vestirsi male non serve seguire la moda – chiosa lui – ma aiuta». Missoni si tiene alla larga dall’ambiente, non si intruppa: «Non li conosco bene, li saluto e basta».
Gianni Brera, che, oltre a essere suo convinto ammiratore, era un grande amico di bevute, lo definiva così: «Ottavio Missoni – ripeteva la penna più acuta del giornalismo sportivo – è il figlio di Apollo». «Apollo non è una divinità che mi incanta, c'è di meglio», rispondeva sornione Missoni. No, non vuole proprio starci, sul piedistallo. Forse perché c’è stato sin da ragazzino. Per merito. Perché era il più veloce. Ha iniziato a correre a dodici anni, nella sua Zara, la città dove si era trasferito con la famiglia quand’era ancora un bambino. E non si è più fermato. Campione mondiale studentesco a Vienna nel 1939, dopo la guerra e la prigionia partecipa alle Olimpiadi di Londra, piazzandosi al sesto posto nella finale dei 400 metri ostacoli e correndo anche nelle batterie della staffetta 4 X 400. Allora come ora, preferisce la trincea dell’autenticità. Il gioco di squadra alle premières dames.
Roberto Alfatti Appetiti
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