martedì 14 febbraio 2012

Viva l'ottava arte! I giornaletti hanno anticipato le rivoluzioni sociali più di tanti saggi accademici

Da Area di gennaio 2012
Cultura alta e bassa. Ufficiale e clandestina. Elitaria e popolare. Progressista e reazionaria. Buona e cattiva. Conflitto epocale: da una parte armate di soloni, quasi tutti di sinistra, e dall’altra truppe irregolari di lettori. Una guerra che col passare del tempo s’è trasformata in scaramuccia episodica, esercizio di sofismo, snobismo di pochi verso i gusti di molti. Quelli che una volta erano i famigerati giornaletti hanno imparato la dura legge del mercato e ora si fanno chiamare graphic novel. Quando si presentano in edicola – talvolta persino in libreria – sfoggiano una rilegatura ineccepibile e copertine ridige più eleganti dei classici, mortificati nell’edizione economica. Per i critici, tuttavia, sempre fumetti rimangono e, come tali, relegati ai confini della narrativa, niente di accostabile alla letteratura. Se tutto quanto è pop è da sempre trattato con sufficienza, il fumetto è l’arte – ma guai a definirla così! – più avversata di tutte. Non soltanto da noi. La lotta contro il fumetto, del resto, ricalca una delle più antiche lotte culturali per l’affermazione del ruolo di formazione dell’immaginario individuale e dei valori personali e sociali: quando in una società un nuovo fenomeno entra in scena e turba quelli che vengono identificati come principi tradizionali e perciò affidabili, diverse correnti di pensiero si affannano per un suo inquadramento e utilizzo, analisi, spiegazione ed eventuale neutralizzazione.
A raccontare gli attacchi feroci che i comic-book cominciarono a subire, sin dal tempo della Seconda Guerra Mondiale, da giornalisti, educatori, figure istituzionali e religiose, critici e scrittori è stato recentemente David Hajdu in Maledetti fumetti! Come la grande paura per i “giornaletti” cambiò la società (Tunué, 2010). Opera preziosa per cogliere il clima del tempo e consentire al lettore una vera e propria immersione nelle tensioni e nel dibattito che accompagnano il fumetto sin dagli anni Cinquanta. Nonostante la maggior parte degli eroi di carta e inchiostro fossero stati arruolati, ancor prima che si “muovesse” il vero esercito degli USA, nella guerra contro la Germania nazista, «molte delle accuse rivolte agli eroi dei fumetti – spiega lo studioso statunitense – vertono proprio sul concetto di “superomismo”: i supereroi erano falsi déi di carta: pagani e, ancora, fascisti».
Il fumetto, almeno fino a quel momento, era tollerato come uno strumento di intrattenimento per bambini e adolescenti. Quel che gli si chiedeva era di essere inoffensivo e sostanzialmente conformista, rispetto a un insieme standard di prìncipi del mondo adulto. «Nascosti e cifrati all’interno di molti degli attacchi ai giornalini a fumetti visti come causa della delinquenza giovanile – spiega Hajdu – non c’era solo la paura di quel che i giovani lettori di fumetti potessero diventare, ma anche di quel che fossero già: una generazione di persone che stavano sviluppando i propri gusti e interessi, e che erano determinate a goderseli». La censura che si abbatté sui comics nella seconda metà degli Anni Cinquanta rappresentò il primo eclatante fenomeno di criminalizzazione di una forma di intrattenimento di massa rivolto principalmente ai giovani, prima dell’analogo fenomeno censorio che si scatenò sul rock’n’roll. «Elvis Presley e Chuck Berry – scrive Hajdu nel prologo – aggiunsero solo la colonna sonora a un mondo creato e messo in scena negli albi a fumetti».
Iniziarono così a fioccare interpellanze parlamentari – esattamente come accadrà pochi anni dopo anche in Italia – e audizioni ad hoc trasmesse in diretta alla televisione. A indossare i panni di Tomás de Torquemada e a guidare una contagiosa campagna moralizzatrice è lo psichiatra tedesco Frederic Wertham, autore di The Seduction of the Innocent, titolo che è tutto un programma, che nel corso delle audizioni della commissione senatoriale presieduta da Robert C. Hendickson tra il 1954 e il 1955 accusa il fumetto di essere responsabile del malessere giovanile, responsabile diretto di analfabetismo, delinquenza e altre deviazioni sociali, arrivando a sostenere che l’intera industria dei fumetti costituisca un vero e proprio gruppo sovversivo dei valori nazionali.
Un attacco talmente efficace che le case editrici si videro costrette sulla difensiva e costrette a scegliere tra la sopravvivenza e l’autocensura (Comics Code). Scegliendo la seconda, con conseguenze distrastrose: si salvarono solo 250 delle 650 testate che popolavano allora il mercato. In alcune aree si arrivò a vietare la vendita di comics ai minorenni; in altre, si stabilirono pene fino a un anno di carcere e 500 dollari di multa, e l’impossibilità di usare termini (nei titoli degli albi) come crimine, terrore, orrore, sesso. «Insomma: più facile fumarsi una sigaretta o scolarsi una bottiglia di wiskey, in quegli anni, per un 14enne».
Clima non molto diverso in Italia. Palmiro Togliatti costrinse Elio Vittorini a chiudere il Politecnico perché divulgava fumetti, mentre Nilde Iotti, su Rinascita, già nel 1951, ribadiva che la gioventù che si nutriva di fumetti era una «gioventù che non legge: e questa “non-lettura” era una delle cause di irrequietezza, scarsa riflessività, deficiente contatto col mondo circostante e quindi tendenza alla violenza, alla brutalità, all’avventura fuori dalla legge».
Un “ragionamento” in base al quale Corto Maltese, Mister No, Ken Parker, Tex, Zagor, sino ai più recenti Dylan Dog e Martin Mistere, andrebbero tutti iscritti d’ufficio nel registro dei cattivi maestri. E pensare che il fumetto d’avventura venne “importato” da noi grazie a un fascista ante marcia, Mario Nerbini. «Per coraggio editoriale e fiuto, vero padre fondatore del fumetto in Italia». Parola di Fabio Gadducci, Leonardo Gori e Sergio Lama che hanno da poche settimane dato alle stampe Eccetto Topolino (Nicola Pesce editore), libro che restituisce – come scrive Mimmo Franzinelli nella prefazione – «il suggestivo ritratto di una particolare dimensione dell’Italia negli anni del consenso: popolare e colta, giovanile e non solo». Nerbini, fascista della prima ora, non farà mai valere il suo “credito” politico per pretendere le sovvenzioni che pure venivano generosamente elargite all’editoria. Le sue storie non sono infarcite della retorica guerresca con cui l’Italia liberale formava fanciulli col moschetto né hanno molto in comune con le rassicuranti storielle pedagogiche del più “anziano” Corriere dei Piccoli. L’Avventuroso, la pubblicazione a fumetti che la Nerbini lancia il 31 dicembre del 1932, farà man bassa di personaggi e storie inglesi e americane senza che nessuno possa accusarla di esterofilia. La casa editrice fiorentina, peraltro, edita il foglio satirico prima nazionalista e poi apertamente fascista Il 420 su cui il fondatore Giuseppe Nerbini, a scanso di equivoci, aveva pubblicato una foto in cui l’intera famiglia ostenta orgogliosamente la camicia nera. L’Avventuroso, capofila di una trentina di riviste a fumetti, è un prodotto veramente popolare, in senso letterale: al prezzo “popolare” di venti centesimi poteva essere acquistato direttamente dai ragazzi. Un successo editoriale talmente clamoroso che persino la Chiesa si vedrà “costretta” a gettare nella mischia Il Vittorioso, periodico allineato al regime e realizzato completamente da sceneggiatori e disegnatori italiani, che troverà nella saga di Romano il legionario, sintesi di patriottismo e clericalismo, il suo eroe principale.
Vera censura, con il fascismo, non ci fu mai. Anche se, con l’avvicinarsi della guerra, motivi di opportunità costrinsero il mondo del fumetto italiano a prendere (temporaneamente) le distanze da quello a stelle e strisce. Eccetto Topolino, come dispose – così narra la leggenda – il duce in persone, ammiratore di Walt Disney. Non per questo il mondo del fumetto era sfuggito alla mobilitazione e messaggi politici più o meno espliciti avevano iniziano a fare capolino nelle storie di evasione, ovviamente mirati a esaltare le glorie italiane del passato in vista di quelle, auspicate, del futuro. Al Congresso Nazionale per la letteratura infantile e giovanile, presieduto da Filippo Tommaso Marinetti e culminato con la redazione del Manifesto della letteratura giovanile – il cui obiettivo dichiarato era quello di far sì che «in tutte le narrazioni i nostri infortuni fossero trattati con laconismo e le nostre numerose vittorie con lirismo» – seguì una cauta campagna per l’italianizzazione della produzione fumettistica mirata a coniugare intenti pedagogici e propaganda. Ingredienti che dovevano essere attentamente dosati per non comprometterne la creatività e soprattutto l’appeal rispetto agli accattivanti competitors d’oltreoceano.
Alla chiamata in armi della patria arrivano in edicola eroi adeguatamente fascistizzati ma sempre popolari: Lucio l’avanguardista, Romano il legionario e soprattutto Dick Fulmine, gemello d’inchiostro del pugile Primo Carnera, poliziotto italoamericano la cui immagine fu abilmente sfruttata anche durante la guerra, quando a Fulmine venne cucita addosso la divisa da soldato.
Dopo la guerra e malgrado la Iotti, il fumetto torna protagonista, senza rinunciare al suo ruolo irriverente. Alla fine degli anni Quaranta compaiono le prime eroine del fumetto erotico, liberamente ispirate al modello femminile di seduzione coniato nella seconda metà degli anni Trenta da Gino Boccasile, il geniale disegnatore pugliese che sulle copertine de Le grandi firme aveva avviato la trasformazione della donna italiana da angelo del focolare a emancipata e libera.
Se l’Italia democratica non ha più perdonato, condannandolo alla damnatio memoriae, questo radicale innovatore del costume e maestro della pubblicità moderna – di cui nel 2012 ricorre il cinquantennale dalla precoce morte – le “sue” donne reclamavano spazio nell’avventura, nel cinema e nella società. E nel giro di qualche lustro si fecero anche protagoniste di serie a fumetti. Pantera Bionda, la tarzanella di Gian Giacomo Dalmasso – edita dalla ARC di Paquale Giurleo, il coraggioso pioniere dell’editoria sexy scomparso, nel 1951, a soli quarantasette anni – si vedrà costretta dai tribunali prima a rivestirsi e poi a lasciare l’edicola. E ancora: Gey Carioca, la pin up disegnata dell’eclettico Paul Campani, costretta dai censori a emigrare in Argentina. Esplode il western a fumetti per adulti con pistolere belle quanto spregiudicate, ma è con i pocket dai contenuti libertari di Renzo Barbieri e Giorgio Cavedon che l’erotismo diventa un prodotto di massa. Loro daranno vita alla “capostipite” Isabella – cui seguiranno Jacula, Lucrezia, Zora la vampira, Lando, Hessa la nazista e tante altre testate di successo – i cui disegni sono affidati al tratto ammiccante di Sandro Angiolini, altro maestro del fumetto passato per la Repubblica Sociale, già allora popolando di avvenenti ragazze le vignette satiriche del settimanale Il Barbagianni. Angiolini, nella prima metà dei Settanta, disegnerà Vartan, l’affascinante indiana bianca di Furio Viano che si contenderà i lettori con gli irrefrenabili Barbieri e Cavedon e con l’erotismo intrinseco quanto ironico di Magnus e Max Bunker.
Sempre loro due nel 1969 creeranno Alan Ford e il Gruppo TNT, sgangherata banda di agenti segreti. Quello che a un osservatore superficiale (o prevenuto) potrebbe sembrare mero umorismo è in realtà feroce satira dei vizi italiani. Il primo botta e risposta tra Alan Ford e il Numero Uno, capo dell’organizzazione, offre una eloquente chiave di lettura, perfetta per i nostri servizi segreti dell’epoca. «La nazione ha bisogno di gente della vostra tempra, figliolo», dice l’improbabile patriota sulla sedia a rotelle. Alan Ford risponde: «Avevo un’idea del tutto diversa della nazione». Un vero tuffo nel politicamente scorretto, ancor prima che questa definizione, ormai diventata stucchevole, venisse coniata. Tuttavia rende bene l’idea di un fumetto “cattivista” e anticonformista, dove i buoni erano spesso un po’ cialtroni e la società mostrava anche i suoi lati peggiori.
Altrettanto cattiva era Satanik, altra figlioccia di Bunker e Magnus, “nata” nel 1964, solo due anni dopo Diabolik, e portata sul grande schermo da Piero Vivarelli. «La mia Satanik ha inventato il ’68», così il regista, poco prima di morire, salutò il ritorno in dvd del film da lui diretto oltre quarant’anni prima e dedicato alla celebre eroina del fumetto nero. Nero, se non altro per tradizione familiare, era anche il produttore esordiente, Romano Mussolini, con il quale il regista condivideva una passionaccia per il jazz. Nera, la location scelta per il film: la Madrid di Franco. E nero, del resto, era stato anche il giovane Vivarelli: reduce dei nuotatori-paracadutisti del reggimento San Marco, X Flottiglia Mas, durante la Repubblica Sociale. «Si noti – faceva osservare all’intervistatore, il critico cinematografico Maurizio Cabona – che in Italia il film uscì non a caso nel marzo 1968, simultaneamente ai disordini di Valle Giulia, a Roma».
Emancipata come ce n’erano poche, non solo nella fiction dei fumetti, Satanik fuma e usa il sesso con la spregiudicatezza che sembrava appannaggio esclusivo dei maschi (pronti ad applaudire ogni dissolutezza, purché non se le conceda la donna, nel caso si punta il dito con sdegno). Non raddrizza i torti come fa Tex da oltre sessant’anni, lei li restituisce maggiorati dagli interessi. E il pubblico tifa per lei. Per una volta l’ipocrisia dei buoni viene sconfitta dalla sana cattiveria di una protagonista che non cerca di mostrarsi migliore di quello che è. La partita, però, è più ampia e il campo di battaglia è un immaginario collettivo in radicale trasformazione. Il vero bersaglio dei fumetti neri, infatti, era una società, quella italiana, che faceva fatica ad accettare il cambiamento dei costumi, l’ansia di libertà delle giovani generazioni, il vento libertario che soffiava d’oltreoceano e che faceva chiudere – anzi serrare – le tapparelle dei benpensanti che cercavano di nascondere l’erotismo sotto il tappeto dei propri tinelli. Molte di queste testate, ovviamente, non esistono più anche se ricompaiono sempre più spesso in edicola in eleganti ristampe da collezione – mascherate, come dicevamo all’inizio, da comic book – a conferma di come il fumetto in Italia conservi ancora un forte radicamento popolare. Abbastanza da sfidare cinema e play station e con ancora tante storie da raccontare.
Roberto Alfatti Appetiti

Nessun commento: