venerdì 2 marzo 2012

La rivoluzione social network

Da Area di febbraio 2012
Ogni rivoluzione, dopo aver seminato il terreno, per manifestarsi aspetta la “sua” primavera. Stagioni che – più o meno brevi, più o meno cruente – segnano passaggi epocali. La data simbolica della rivoluzione iniziata quindici anni fa con i primi blog e realizzata da Mark Zuckerberg con Facebook è il marzo 2010: per la prima volta le visite alla homepage del social network creato dal “miliardario più giovane del mondo” nel 2004 hanno superato quelle a Google, il motore di ricerca per eccellenza, sino ad allora l’indiscusso re del web. Un sorpasso inimmaginabile fino a qualche anno fa.
Stare dietro ai numeri è difficile, ma alla fine del 2011 gli utenti italiani del “faccialibro” viaggiavano verso quota venti milioni, di cui poco meno della metà con cadenza quotidiana. Si connettono da casa, dall’ufficio, dal cellulare. Condividono stati d’animo, foto, video musicali e, qualche volta, azzardano opinioni. Esprimono il desiderio, spesso in modo infantile se non spudoratamente superficiale, di comunicare.
È la rivoluzione del web 2.0, finalmente accessibile a tutti, indipendentemente dal livello culturale e dalle “competenze” informatiche. Perché non si tratta “solo” di una rivoluzione tecnologica di massa, ma dell’introduzione di nuovi modelli di comunicazione che hanno cambiato le dinamiche stesse delle nostre relazioni sociali. Tutto sembra essere più immediato e accessibile. Se fino a ieri internet era identificato col computer – fisso o portatile – adesso si è integrato perfettamente con gli altri media. Con una differenza sostanziale, che lo rende particolarmente “appetibile”. L’impostazione dei mass media tradizionali viene rovesciata: se prima a selezionare i contenuti c’era un unico “emittente”¬ – peraltro il più delle volte sotto il controllo diretto o indiretto del potere politico o economico – e molti erano meri riceventi passivi, con il web 2.0 è l’utente a selezionare le informazioni, a commentarle con immediatezza, decidendo se rilanciarle o contestarle. Chiunque può crearsi un “palinsesto” e dire la propria – anche chi non ha nulla da dire – dando libero sfogo alla propria creatività. E soprattutto lo fa con la stessa disinvoltura con cui affronterebbe tale discussione in un luogo fisico.
«La lotta politica non si farà più tra destra e sinistra – ha scritto il sociologo tedesco Derrick De Kerckhove – ma tra chi guarda la tv senza una risposta e chi accede alla Rete con un’informazione molto più completa e che ognuno può gestire e alimentare».
Parliamoci chiaramente: non c’è mezzo di comunicazione che possa tenere il passo con la Rete. Per quanto possa avere lo schermo piatto, il televisore sembra sempre più un elettrodomestico del passato. Il telegiornale, con i suoi tempi, i suoi mezzibusto in quota partito e i suoi panini preconfezionati, diventa uno spettacolo prevedibile, di una noia mortale. Farne a meno non è un dramma. Impensabile, invece, separarci da internet. Cellulare, iPhone, iPad, l’astinenza da web può assalirci in ogni momento. È come se gli avvenimenti della nostra vita non esistessero se non possiamo mostrarli in tempo reale sul web. Davanti alla tastiera, lo spettatore diventa (almeno in parte) attore realizzando una comunicazione partecipativa o quanto meno, come la chiamano gli studiosi, a platea attiva. Platea che può decidere di aggregarsi, dare vita a una mobilitazione, organizzare eventi: manifestarsi. Dal popolo viola ai comitati di solidarietà per il terremoto aquilano. Non solo: in contesti totalitari, i social network risultano preziosi per supplire il deficit di democrazia. In Iran, per fare un esempio, è stato grazie a Twitter – l’sms dei social network nato nel 2006, il primo ad essere pensato per essere usato in mobilità, mediante il telefono cellulare – che l’opposizione al presidente Ahmadinejad ha potuto continuare a comunicare con il mondo dopo il blocco delle comunicazioni: affidando a tante bottiglie nell’oceano della comunicazione globale un messaggio di libertà.
Un fenomeno sociale di cui non si può non sottolineare la potenzialità: un network di milioni di persone in tutto il mondo connesse tra loro, che cercano di eliminare i coni d’ombra dell’informazione, forse non cambieranno il mondo ma, per usare un giro di parole, di certo cambiano il modo in cui il mondo cambia. Forse è presto per dire che sta nascendo una nuova civiltà dal basso, ma tra qualche anno potrebbe essere la civiltà prevalente e se noi non ci attrezziamo ci troverà indaffarati a cercare il telefono di un ristorante sulla pagine gialle o a consultare un’enciclopedia cartacea per inseguire una voce del passato.
La ragione del successo dei social network nasce proprio da questo: rispondere ai bisogni degli utenti meglio di quanto facevano i portali di informazione con i primi servizi online. Il tutto, almeno per ora, gratis. Lo ha ben sintetizzato Miska Ruggeri nel suo libro Alla conquista del web: «Facebook è il fenomeno che è perché è stato reso emozionale. Quando apri facebook hai la sensazione che qualcosa possa accadere nella tua vita. Questo è il suo appeal».
Non mancano le controindicazioni, ovviamente. Allarma la violazione della privacy degli utenti, minata dalla grande quantità di dati e informazioni personali che cediamo, offrendoci come ghiotte prede per i venditori d’ogni latitudine. Paradossalmente, è vero che nei social network posso più facilmente cambiare la mia identità virtuale ma è anche vero che, seguendo le traccia lasciate dalle diverse identità virtuali, è più facile per gli altri ricostruire la mia identità reale. Tutto, nell’era di internet, diventa commercializzabile, anche quello che fino a ieri atteneva alla sfera dell’intimità. Il tempo libero, quello che fino a qualche anno fa era riservato allo svago, è caduto nella Rete: che si tratti di acquistare online – sia pure sotto forma di gioco, come abilmente propone ebay – o di “divagarsi” con i social network, mai come oggi il tempo libero si fonde con il processo di produzione e il consumo. Centinaia di milioni di performer online e divi da social network lo stanno mettendo in vendita: i blogger che vogliono essere seguiti; i videoblogger che sperano disperatamente di essere visti; gli utenti di facebook o myspace che pubblicizzano le loro qualità; gli aspiranti romantici di Match.it; i venditori di ebay. Ogni tipo di esperienza è disponibile come forma di cultura: non esistono criteri per giudicare tranne quello della popolarità e orientarsi nel bombardamento quotidiano di informazioni diventa ogni giorno più difficile. In particolar modo per i giovani, cui mancano ancora bussola valoriale e legami solidi, messi di fronte a una comunicazione talmente liquida da diventare scivolosa.
Gli utenti, tuttavia, sanno che indietro non si torna. I “dipendenti” di Facebook (patologia che, come tale, inizia a essere trattata) si indignano per l’uso irritante dei social network, per la nascita di gruppi come “giochiamo al tirassegno con i bambini down”, contestano le innovazioni funzionali che Mister Mark introduce – come in questi giorni la “rivoluzione” della bacheca trasformata in un Diario – salvo poi accettarle di buon grado.
A tirarsi fuori dal coro dei «tecnoentusiasti» – come li definisce – è Lee Siegel, critico culturale del The New York Times, che ha da poco pubblicato Homo interneticus. Il sottotitolo non lascia dubbi sulla sua diffidenza: Restare umani nell’era dell’ossessione digitale.«Ci stiamo davvero evolvendo da Homo sapiens a Homo interneticus? E siamo sicuri che sia un’evoluzione?», si interroga l’autore che, sin dalle prime pagine, si confronta con «il trionfalismo irrazionale» e la retorica acritica che accompagna le «rivendicazioni democratiche e antielitarie» di internet. «Qual è il costo psicologico, emotivo e sociale della nostra solitudine high-tech?», si domanda. «Il talento e l’originalità sono stati sostituiti dalla popolarità a ogni costo e la conoscenza è stata sepolta sotto un eccesso di informazioni indistinguibili – osserva Siegel – perchè la folla di internet denigra l’eccellenza ed eleva il banale e il mediocre».
Già trent’anni fa, del resto, Christopher Lasch scriveva nel suo La cultura del narcisismo che il narcisista, categoria che impazza nella blogsfera, è «colui la cui percezione di sé dipende dall’approvazione di altre persone, di cui tuttavia non gli importa nulla». Un cinismo che è pronto a sacrificare qualsiasi cosa nel nome della popolarità. Verbo cui s’è rassegnata anche l’informazione “ufficiale”, se si considera che persino i giornali – lesti a scendere in Rete con versioni online più o meno aggiornate – propongono le classifiche non degli articoli più importanti ma di quelli “più letti”. Ovviamente i più pruriginosi. Indicativo? No, sintomatico.
Roberto Alfatti Appetiti

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