sabato 3 marzo 2012

Palacinche di Tota e Sansone. L'esodo fiumano in un graphic novel

Dal Secolo d'Italia del 3 marzo 2012
Può un viaggio durare dodici anni? E soprattutto può definirsi “viaggio” la migrazione forzata, l’essere costretti ad abbandonare casa, luoghi e affetti con una macchina da cucire e qualche coperta come bagaglio? A queste ed altre domande prova a rispondere Palacinche. Storia di un’esule fiumana (Fandango, pp. 186, € 18), diario personale immerso in una tragedia collettiva, raccontato attraverso un’originale patchwork di disegni e immagini che mescola con risultati sorprendenti il linguaggio del fumetto con quello della fotografia.
Le matite sono di Alessandro Tota, trentenne barese “emigrato” a Parigi, artista con all’attivo due notevoli graphic novel, Yeti e Fratelli, entrambi editi in Italia da Coconino. A scattare le foto è Caterina Sansone, fiorentina di un anno più giovane, sua compagna di vita e figlia di Elena, la vera protagonista della storia, la cui testimonianza rappresenta il “timone” del libro. Nata a Fiume nel 1942 da madre croata e padre italiano, Elena ha appena otto anni quando lascia la città che, dopo la seconda guerra mondiale, è stata annessa alla ex Jugoslavia. Il suo nuovo nome croato, Rijeka, altro non significa che fiume.
È il 27 dicembre del 1950 e l’insofferenza dei comunisti slavi nei confronti degli italiani non accenna a diminuire. La pulizia etnica continua. Cresce il numero degli assassinati, di coloro che spariscono improvvisamente nel nulla. Una condizione insostenibile: «Non ti volevano e allo stesso tempo non ti lasciavano partire». Non c’è da mangiare, Elena si ammala, non rimane che partire con passaporto valido – si badi bene – solo per l’andata. Come ha detto Ottavio Missoni, sindaco “onorario” del libero Comune di Zara, nato a Ragusa da padre di origine giuliana e madre dalmata, «siamo diventati esuli permanenti perché l’emigrante almeno può consolarsi sognando di tornare nel suo paese, mentre a noi anche questo sogno ci è stato tolto».
La prima tappa è Trieste, poi il campo smistamento profughi di Udine, Palermo, il Parco di Capodimonte, Bagnoli, Napoli e infine Firenze, attuale luogo di residenza di Elena. I due autori hanno compiuto questo tragitto a ritroso, procedendo da nord a sud. Seguendo le tracce della memoria di Elena hanno visitato, fotografato e disegnato i luoghi dove, oltre mezzo secolo prima, erano stati allestiti i campi profughi. Se il racconto a fumetti di questa sofferta e colpevolmente rimossa pagina di storia italiana è senz’altro unico, lo è ancor di più l’indagine da loro svolta sull’esperienza umana dell’esilio, con cui hanno messo a nudo stati d’animo, momenti d’intimità, pensieri e sensazioni di una famiglia come migliaia d’altre. Lo hanno fatto senza tacere nulla ma con commuovente delicatezza, conciliando il rigore documentaristico con una sdrammatizzante ironia che ricorda quella con cui John Fante ha celebrato le “epiche” vicissitudini degli italiani d’America. Tota non a caso è un “fantiano” e, per quanto si esprima col fumetto, non nasconde di puntare dritto al pubblico dei lettori di romanzi.
«Non volevamo fare un drammone strappalacrime ma qualcosa di leggero e piacevole – ha spiegato il disegnatore pugliese – perché questa gente ha saputo reagire alla propria situazione, non si sono lasciati andare». Più indigenti che poveri, relegati in baracche fatiscenti, sradicati dalle proprie terre, costretti a cambiare abitudini sociali e persino alimentari, hanno accettato rinunce di ogni genere ma mai hanno rinunciato alla dignità, proprio come i nostri emigrati d’oltreoceano raccontati. «Le donne non vestivano mai di nero – rivela Elena – perché dicevano: già stiamo in una situazione difficile, dobbiamo pure noi vestirci di tristezza? Allegria, piuttosto».
Ed è questo anche l’approccio degli autori, evidente già nel titolo scelto per il graphic novel. Le palacinche sono frittelle il cui nome si pronuncia allo stesso modo da entrambi i lati del confine. «Si tratta di un piatto – sottolinea la Sansone nelle prime pagine del libro – che insieme a canti, proverbi e ricordi ha attraversato la frontiera come parte del bagaglio culturale di un popolo in esilio. Meglio partire da qui, da un gioioso ricordo d’infanzia, per attraversare la memoria dell’esodo».
Ricordi non sempre piacevoli. Che neanche il tempo e il sudato benessere, raggiunto decenni dopo, può cancellare. «Quando a casa a Firenze si staccava il lampadario per pulirlo, mamma non riusciva a sopportare la vista della lampadina nuda, penzolante dal soffitto, perche le ricordava la baracca». Perché di baracche parliamo, quelle del campo profughi del bosco di Capodimonte. Per oltre dieci anni fu la loro casa. Il campo era stato costruito nel 1947 utilizzando le baracche servite come alloggi alle truppe del comando militare inglese e furono assegnate all’associazione profughi giuliani. Senza gas e con i fili elettrici che volano tra i rami provocando spesso incendi. Sfidano le fiamme per salvare i documenti: se avessero perso quelli attestanti la sia pur precaria qualifica di profugo sarebbero diventati semplicemente nessuno. E siccome nel nostro paese non c’è niente di più definitivo del provvisorio, il campo è stato smantellato solo nel 1991 e demolito nel giugno dell’anno successivo. A loro è andata meglio: «entrarono nel bosco nel 1951 e fecero domanda per una casa popolare, ma la ottennero solo 10 anni dopo». L’accoglienza non è sempre delle migliori, i pregiudizi non favoriscono l’integrazione e il loro tenore di vita – come riferiscono disegni e fotografie – è men che modesto. E poi non sembrano neanche italiani, non mangiano pizza, mischiano la pasta con le minestre e persino la lingua sembra diversa. A Napoli – dice Elena – quando uno è straniero è considerato francese e loro, per i più, rimangono francesi. Ciononostante cercano di mantenere vive le tradizioni. Dal campanile della Chiesa del campo rintoccano “le campane di Fiume”, organizzano gare di tiro alla fune, balli campestri e persino l’elezione della reginetta. E non c’è festa senza torta, sia pure solo di cartone. Certo non si può mangiare ma almeno avrebbero avuto la foto ricordo. Foto che sono arrivate agli autori ben custodite in una scatola di latta su cui c’è scritto: “Foto Elena”.
La prima curiosità di Tota, nell’intervistare la suocera, è tesa a sfatare un consolidato luogo comune: gli italiani erano fascisti e, come tali, andavano eliminati. Lo era Guerrino, il padre di Elena? «No, anzi: da giovane leggeva Marx, ma cambiò idea quando vide i comunisti e in Italia votava Saragat, cioè i socialisti che, nel 1947, rifiutarono l’alleanza col Pci». La sua unica “colpa”, pertanto, era di essere italiano. Nel 1962 ebbe un malore, ma il dottore arrivò solo dopo un giorno e mezzo. Troppo tardi. Quando dispose il ricovero d’urgenza, l’ulcera l’aveva già ucciso: aveva 47 anni. Elena conoscerà il futuro marito Vittorio a Napoli nel 1963. Cinque anni dopo sono marito e moglie. Lui, ingegnere partenopeo, vince il concorso all’Anas di Firenze e insieme compiono l’ultimo tratto di strada: questo sì un viaggio, quello che li porterà verso una riconquistata “normalità”.
Il lieto fine non risarcirà Elena, anche se quest’opera a fumetti segna un’importante passo in avanti verso per la ricomposizione di un immaginario condiviso tra generazioni. Che si tratti delle sorti a tinte fantastiche di un gruppo di immigrati a Parigi, come in Yeti, o dei giovani sbandati e senza valori della Bari iper-realistica di fine anni Novanta ritratta in Fratelli, Tota non cede alla retorica e al moralismo o, peggio, alla tentazione di veicolare un messaggio politico. Si limita a raccontare storie che, per quanto crude, non rinunciano a far intravedere uno spiraglio di luce. Il che, in tempi bui come i nostri, non è poco.
Roberto Alfatti Appetiti

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