lunedì 30 luglio 2012

Pino Grillo, il signore dei libri

Da Area di giugno 2012
Settecolori, la casa editrice che Pino Grillo fondò nel 1978 non avrebbe potuto avere nome migliore. Perché I sette colori è il titolo del romanzo più noto di Robert Brasillach, cantore della gioventù e dell’amicizia. Ma è anche la sigla che Maurice Bardèche, cognato dello scrittore fucilato per collaborazionismo il 6 febbraio del 1945, in un atto d’amore e fedeltà, scelse per le proprie pubblicazioni. E un incrollabile senso dell’amicizia animava l’editore di Vibo Valentia, oltre a una ferrea perseveranza nel portare avanti un progetto più folle che ambizioso: non “solo” pubblicare libri, per quanto interessanti, ma creare unità d’intenti in un mondo culturale, quello di destra, in cui individualismo e rivalità l’hanno sempre fatta da padroni. Pronto a caricare il portabagagli della macchina di libri e lasciare terra, moglie e figlio, per consegnare volumi che nessuna distribuzione commerciale si sarebbe sognata di proporre a una qualsiasi libreria e per tenere insieme una cerchia di amici allegramente controcorrente. 
«Amico degli amici, in modo assolutamente non retorico. Nel frattempo che ognuno di noi diventa sempre più stronzo, Pino, invece, è quello che drinn, fosse Pasqua o Natale, chiama e fa gli auguri». Un’amicizia che Pietrangelo Buttafuoco non riesce a declinare al passato, di cui affida il ricordo a Era mio padre, il libro che il figlio di Grillo, Manuel, ha stampato in occasione dei dodici anni dalla scomparsa dell’editore, il 24 agosto del 2000, stroncato ad appena quarantanove anni da un male incurabile. Il libro, per ora disponibile in anteprima nelle presentazioni – dopo Vibo, Roma e Napoli sono in programma nei prossimi mesi Firenze e Milano – sarà presto disponibile anche per la vendita.
Di padre in figlio. È Manuel a pubblicare i libri che Pino aveva annunciato. « Continuare quello che lui così coraggiosamente aveva iniziato divenne per me un imperativo morale», racconta. Un figlio che «ha le sue stesse abitudini», testimonia Stenio Solinas. Come lui, macina chilometri. «Non mi interessano i luoghi, io sto bene là dove posso stare con gli amici veri», ripeteva nel suo peregrinare questo calabrese massiccio, amante del buon sigaro e del buon whisky. Se Solinas, nella sua casa di Milano, gli aveva destinato la camera degli ospiti – «la camera di Pino» – adesso che vive in un appartamento più piccolo «c’è il divano di Manuel».
Lo stesso Pino, del resto, era appena un ragazzo quando intraprese la più improbabile delle missioni: inventarsi editore in un ambiente politico in cui si leggeva poco e male e ci si faceva la guerra tra poveri. Grillo era di buona famiglia ma non certo ricco. «Invece di cambiare macchina o farsi una vacanza – scrive ancora Solinas – Pino stampava un libro, credeva in quello che faceva e non c’erano ostacoli in grado di fargli cambiare idea, mentre oggi si fa quel che si può e al primo intoppo ci si ritira in buon ordine».
Grillo no, non si sarebbe arreso neanche di fronte alle difficoltà economiche che, puntualmente, arrivarono. «Avevamo le idee, l’età, la rabbia. I soldi no. Pino neanche, ma era disposto ai debiti», scrive Maurizio Cabona. Marco Tarchi gli affidò due imprese impossibili: ripubblicare l’introvabile Il tempio del cristianesimo di Attilio Mordini e La storia della rivoluzione fascista di Roberto Farinacci. In pochi mesi i volumi videro la luce. Grillo faceva sul serio.
«Per lui – scrive il politologo fiorentino – la spesa per stampare un volume che gli interessava non costituiva oggetto di preoccupazione e l’amicizia per l’autore contava più di ogni altro fattore. Voleva esserci, dare una mano. Non perché fosse conquistato dal Verbo, la sua concezione della destra era istintiva e tendenzialmente onnicomprensiva, contrapporne una nuova ad altre vecchie credo non rientrasse nelle sue corde».
«Sembrava che Pino riuscisse a parlare con tutti – conferma Tomaso Staiti di Cuddia – cogliendo il buono di ciascuno, se c’era. Pino sapeva che chi viaggia ha per compagni ora questi, ora quelli…».
«Per gli editori di area – spiega Marcello Veneziani – nuova destra, destra estrema e radicale, ordine nuovo, missinerie e fascisterie sparse, erano parrocchie diverse di una medesima Chiesa Madre. Pubblicavano a naso, come del resto i grandi editori: ma questi avevano il naso per gli affari, i Pino Grillo avevano il naso per i temi negati, gli autori proibiti, le cose vietate che tanto piacevano ai camerati colti quanto erano detestati dal mercato normale».
La sua, del resto, non era una vocazione commerciale. «Era un fidato compagno di avventura nella fase d’età in cui si pretende di cambiare il mondo con quel disinteresse che a questo mondo è spesso una colpa», scrive Giuseppe Del Ninno. Raramente le vendite dei libri coprivano le spese. Ci riuscì nel 1984 con C’eravamo tanto a(r)mati, volume curato da Maurizio Cabona e Stenio Solinas, antesignano della memorialistica d’antan che in tempi più recenti ha invaso le librerie patrie. Un appassionato affresco degli anni Settanta (ripubblicato nel 2010) affidato a chi – recita la quarta di copertina – «s’affacciò a quel decennio con i primi pantaloni lunghi del liceo o con gli esami in facoltà ancora sulla pelle o, infine, fresco di laurea». Venticinque storie raccontate da nomi famosi e no, specialisti e dilettanti, «impegnati nella speranza e/o la delusione di un’Italia diversa da quella in cui si trovarono a vivere».
Anni di piombo, certo, i Settanta. Ma anche di carta. «Perché buona parte dei furori e degli umori che li attraversavano – scrive Tarchi – dei sogni di improbabili rivoluzionari che vi si coltivavano, delle scomuniche e delle condanne che vi si pronunciavano, finiva lì: sulle pagine di una miriade di riviste, giornali, opuscoli, volantini, libri a cui si affidavano le sorti della guerra delle idee».
Metafora, della guerra, neanche troppo ardita. «La cultura era considerata in quegli anni una rivincita dei sogni ideali e politici sconfitti dalla storia e dall’attualità – scrive Veneziani in Era mio padre – ovvero una specie di prologo in cielo di quel che non si poteva ottenere in terra».
Una guerra, anche quella delle idee, non del tutto persa ma segnata da diverse battaglie perse. Gli insuccessi, infatti, non mancarono – tra cui la cessazione delle pubblicazioni della seconda serie di Elementi, di cui Grillo è stato l’editore – ma non per questo si scoraggiò, sempre pronto com’era a entusiasmarsi per nuove iniziative culturali e editoriali. Lo stesso entusiasmo alimenta Manuel, che dal 2006 ha ripreso e rilanciato il marchio pubblicando Ultimo anno di Alain De Benoist, diaro di un anno, l’ultimo del Novecento, in cui accanto ai grandi temi delle “guerre umanitarie”, della crisi dello Stato sociale e dello Stato nazionale, dell’immigrazione e della globalizzazione, trova spazio un commosso ricordo dell’amico Pino. Negli anni successivi sono seguite pubblicazioni di grande interesse, da Fratelli separati di Maurizio Serra – premio Acquistoria 2008, poi pubblicato in Francia da Gallimard – a Vagamondo di Stenio Solinas, da Neutrale contro tutti di Jean-Jacques Langendorf a L’ora di Telemaco. Un’odissea americana di Alberto Pasolini Zanelli, libri che hanno conquistato lusinghiere recensioni sui grandi quotidiani nazionali.
Non solo, nei prossimi mesi vedranno la luce il romanzo La giovane turca, il primo romanzo pubblicato in Italia, con il contributo del Goethe Istitut, di Martin Mosebach, vincitore del Premio Georg Büchner 2007, il più prestigioso riconoscimento letterario tedesco, ed Elogio della vanità di Giuseppe Berto, mentre per il prossimo anno la Settecolori segnerà forse il suo colpo più clamoroso, quello che Pino avrebbe voluto cogliere: la pubblicazione in italiano de I due stendardi di Lucien Rebatet.
Libri che andranno ad arricchire un catalogo già importante, su cui molti di noi si sono formati e nel quale non poteva mancare Brasillach, del quale la Settecolori pubblicò l’unica versione italiana tuttora reperibile (con difficoltà): La ruota del tempo, a parere di molti – e di chi scrive – il suo romanzo più intenso. E ancora: Drieu La Rochelle, Malgeri, Erra, Del Ninno, Solinas e tanti altri tra cui Alain De Benoist, quel L’eclisse del sacro in cui l’intellettuale francese dialogava con il conservatore cattolico Thomas Molnar. Non c’era presenza in Italia del padre della Nuova Destra che non trovasse tra il pubblico Pino Grillo che, anche quando la malattia l’aveva inesorabilmente minato, non esitò a scalare lo stivale fino a Varese per poter abbracciare l’amico d’Oltralpe.
«Pino – scrive Alain De Benoist – era la fedeltà e la cortesia in persona. Di provata generosità, sapeva che si ha solo quel che si è donato. Sapendosi condannato, ha continuato a lavorare fino alla fine. Viveva di ciò che è più della vita e sorrideva sempre».
Gli fa eco Maurizio Cabona: « Pare che la vita o la si viva o la si scriva. Trovando la “terza via”, Pino la viveva e la faceva scrivere. E sorrideva del più bello dei sorrisi».
Roberto Alfatti Appetiti

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