martedì 28 agosto 2012

Chuck Palahniuk, il cantore dell'incubo americano

Dal Secolo d'Italia del 29 luglio 2012
«Quand’è che il futuro è passato da essere una promessa a essere una minaccia?». La questione è di un’attualità drammatica, tenuta viva dalla brace della crisi economica globale. Chuck Palahniuk, con visionaria lungimiranza, se la poneva già alla fine degli anni Novanta in Invisible Monsters. In un tempo in cui i mercati non avevano la pretesa di scegliere i governi o, almeno, non così sfacciatamente. L’economia sembrava avere tutte le risposte e la diseguaglianza sociale era l’inevitabile prezzo da pagare alla modernità.
Tramontato il sole dell’avvenire, però, nella notte della globalizzazione tutte le vacche sono nere. E tutti i paesi, aggiungiamo noi, sono (stati) declassati. A non essere declassabili, invece, sono i libri dello scrittore americano. Presenti in libreria in piccole edizioni economiche (la Biblioteca Oscar della Mondadori), perfette per resistere alla spending review dei lettori, ideali per introdursi nelle borse da mare e sbarcare sulle spiagge italiane. A settembre, poi, tornerà in circolazione anche Dannazione, romanzo che potremmo definire horror se non contenesse l’abituale quanto robusta dose di satira sociale. La protagonista, infatti, è Madison, tredicenne che, pur morendo di overdose, rimane più vitale di quella società di morti viventi, anestetizzata dal consumismo, cui Palahniuk ha dichiarato guerra sedici anni fa. Sì, perché le ostilità contro il politicamente corretto vennero aperte nel 1996 con Fight Club, il romanzo con cui ha rovesciato le scrivanie dei critici progressisti. Repubblica caricò a testa bassa. Recensendo la trasposizione cinematografica di David Fincher del 1999, Roberto Nepoti denunciò «una ideologia estremamente ambigua; meglio: equivoca. È equivoco lo sguardo portato sui personaggi di Fight Club, profeti di una violenza che si vorrebbe rigeneratrice, di un truce dandysmo tra il nichilista e il testosteronico. La ribellione contro il logorio della vita moderna è fatta di sostanza qualunquista e incline alla violenza rigeneratrice di marca fascista».
Fascista, così veniva liquidata la rivolta dei giovani arrabbiati di Palahniuk, colpevoli di combattere l’omologazione attraverso l’estrema riscoperta del dato della corporeità, mortificato da una lunga tradizione culturale. La via è quella della decostruzione e ricostruzione di sé. Del gioco virile che nel successivo Rabbia diventa il party crashing, scontrarsi con la macchina, e il farsi mordere dagli insetti. Negli incontri di boxe clandestina in cui Brad Pitt ed Edward Norton, superlativi, se le danno di santa ragione, una nuova consapevolezza si forgia nel sudore e nel sangue. «Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza», assicurava Nietzsche.
Una lezione che il nostro ha dimostrato di aver appreso, a giudicare dalla potenza di fuoco dei suoi libri crudi e minimalisti, ma anche dalla tonicità dei bicipiti, coltivati quand’era meccanico e conservati con cura malgrado i cinquant’anni da poco compiuti. C’è da giurare che manderebbe senza alcuno sforzo i suoi colleghi al tappeto, non solo nelle vendite. È uno scrittore sui generis, a confronto con i suoi coetanei, il più delle volte distanti dai personaggi che raccontano. Condiscono le storie con avventure d’ogni gnere, mentre le loro vite scorrono ordinarie. La leggenda, invece, vuole che Palahniuk trasse lo spunto per Fight Club tornando a casa con un occhio pesto, souvenir di una rissa. Una famiglia poco tranquilla, la sua. Il nonno aveva eliminato la nonna a pistolettate. Analoga sorte, nel 1999, è toccata al padre Fred, assassinato dal marito della sua amante (vicenda tragica cui si ispirò per Ninnananna). Una cosa è certa: Palahniuk non si è eletto a vittima del sistema ma, al contrario, ha impugnato la penna come un’arma, prima come giornalista e poi, trentenne, tentando la strada della letteratura, rifiuto dopo rifiuto.
Con Invisible Monstres, Survivor e Soffocare, all’alba del Duemila si è guadagnato la prima fila dei grandi scrittori americani. Da allora non si è seduto sugli allori, non si è messo a scrivere sequel, non si è fatto arruolare dagli Studios, non frequenta i salotti – vive tranquillamente nella sua Portland – e soprattutto non ha perso il gusto della provocazione. Come quando, in Italia per un tour letterario, dichiarò che invidiava Anna Frank «perchè almeno le erano state risparmiate le presentazioni». Ad altri, tuttavia, è andata peggio: nel 2003 una settantina di persone si sarebbero sentite male quando l’autore lesse pubblicamente Guts, storia breve su una maldestra pratica masturbatoria finita male. Sesso, violenza, frustrazioni e umorismo. Palahniuk rovista tra i cassonetti della società occidentale per poi rovesciare su carta l’incubo americano. Senza il velleitarismo di voler cambiare il mondo. «In una cultura in cui la gente ha troppa paura per affrontare le malattie gengivali – scrive in La scimmia pensa, la scimmia fa – come si può convincerla ad affrontare un qualsiasi altro problema? L’inquinamento? L’eguaglianza dei diritti? E come spingerli a lottare?». Dobbiamo arrenderci? No, tutt’altro. «Tutto quello che fa Dio è guardarci e ucciderci quando diventiamo noiosi. Non dobbiamo mai e poi mai essere noiosi» (Invisible Monsters). Mai diventare noiosi, questo è l’imperativo di Palahniuk. A noi farcene carico.
Roberto Alfatti Appetiti

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