martedì 13 novembre 2012

Il Malaparte riabilitato

Da Area di ottobre 2012
«L’Europa non è che una famiglia d’assassini, di ruffiani, di vigliacchi. Bisogna avere il coraggio di riconoscerlo... È finita, ormai, è un continente marcio. Ha già i vermi, è coperto di vermi». No, non siamo di fronte al grido di dolore di un intellettuale greco. Né al j’accuse di uno scrittore spagnolo. Tanto meno di un italiano. Figuriamoci! I nostri, di intellettuali, la crisi la schifano e la schivano, tutt’al più le concedono un instant book che consenta loro l’ennesima comparsata televisiva, rigorosamente a gettone.
A denunciare nei suoi romanzi la decadenza di un’Europa già corrotta, ben prima che il sogno comunitario (perché tale si è rivelato: una illusione, l’ultima) svanisse, è stato Curzio Malaparte, il letterato – europeo prima ancora che italiano e non solo per via del padre tedesco – che, come pochi altri della sua epoca, ha predetto con precisione e vigore il declino dell’Occidente. Stretto e a disagio nei panni del testimone, volle farsi protagonista del Novecento, facendosi carico fino in fondo delle contraddizioni di un secolo incandescente, ponendosi in difesa di quel patrimonio che guerre e rivoluzioni non sono riuscite a dissipare e che ora rischia di essere disperso dalla debolezza della classe politica e dalla latitanza di quella intellettuale. Il Vecchio continente agonizza mentre scrittori, registi e giornalisti, come i musicisti del Titanic nella celebre scena dell’inabissamento della nave, si trascinano in rituali quanto effimeri premi letterari e festival cinematografici. Ognuno chiuso nel rassicurante (si fa per dire) recinto nazionale. Per trovare un intellettuale che abbia un respiro autenticamente internazionale bisogna cercare nel passato. Non tra i santini. Non nell’album delle figurine di parte. Ma in fondo al cassetto dei dimenticati, dei rimossi, di coloro che nessun partito si sognerebbe di rivendicare, tra i pochi “compromessi” col fascismo cui non è mai stata concessa la riabilitazione piena. Forse perché, mentre gli altri si affrettavano ad appuntarsi la medaglietta resistenziale, lui, deluso dal fascismo come dall’antifascismo, si consolava facendosi beffe dell’Italia democratica: «La repubblica è un povero artificio/ è nata male e vive tra i becchini».
In quella terra di nessuno popolata di impresentabili, Maurizio Serra, ambasciatore all’Unesco, saggista di valore e coraggioso talent scout degli esteti armati nelle contaminazioni tra letteratura, politica, arte e vita del secolo scorso, nel 2011 ha ripescato Curzio Malaparte, rimuovendo l’ostracismo cui il “maledetto toscano” è stato sottoposto per le scelte politiche e esistenziali, con un’iniziativa editoriale azzardata ma felice: un’opera monumentale scritta in francese per i francesi. Malaparte, vies et légendes (Grasset) è stato accolto d’Oltralpe trionfalmente, ottenendo il Prix Casanova – premio letterario creato dallo stilista Pierre Cardin – e soprattutto il Goncourt de la Biographie. «La figura di Malaparte – ha spiegato Serra – corrisponde a una certa idea molto francese dell’intellettuale del Novecento, tra letteratura, politica e avventura, che è un po’ il paradigma dell’intellettuale impegnato».
Libro che dal 17 ottobre è nelle nostre librerie con il titolo di Malaparte, vite e leggende (Edizioni Marsilio, traduzione di Alberto Folin). Curiosa coincidenza di date: il 17 ottobre del 1933 lo scrittore, per ragioni meramente politiche, varcava la soglia del carcere romano di Regina Coeli. Fascista o antifascista? O meglio: traditore del fascismo o tradito dal fascismo? Idealista o opportunista? Uomo d’ordine o ribelle? Conservatore o rivoluzionario? Arci-italiano o anti-italiano? Attorno a questi e mille altri interrogativi si sono spesi negli anni biografi come Franco Vegliani, Giordano Bruno Guerri e Giuseppe Pardini, misurandosi con i radicati cliché con cui a lungo è stato liquidato il “Cagliostro dei nostri tempi”: scrittore di talento ma senza principi, esibizionista, mitomane, avido di denaro, camaleonte spregiudicato nei suoi eccessi di disinvoltura.
Tutt’altro che facile districarsi tra il soldato, il poeta, lo scrittore, l’inviato di guerra, l’autore teatrale e cinematografico, ma anche il duellante e il ciclista, inseguire il romanzo avventuroso della vita di un uomo affascinato da ogni eresia intellettuale e pronto a ogni sfida – partire volontario sul fronte della Prima guerra mondiale come marciare su Roma – che volle, fortemente volle, rimanere fedele a se stesso, pur consapevole di quanto il confine tra successo e rovina fosse sottile. Vegliani, già nel 1957, ne sottolineò l’ostinata fedeltà «al personaggio che aveva voluto, o accettato, di essere». Guerri, trent’anni fa, si fece carico di ridimensionare luoghi comuni e leggende – opera difficilissima, perché molte alimentate ad arte dallo stesso Malaparte – per restituire ai posteri «un personaggio meno drammatico, epico e favoloso di quanto egli si è fatto credere ma anche meno ambiguo e scandaloso di quanto gli viene attribuito». Pardini, da parte sua, ne ha successivamente evidenziato l’intima coerenza di «esteta della politica», spiegando come conoscere Malaparte resti necessario «per comprendere pienamente molte delle posizioni, delle istanze morale, sociali e culturali, espresse dal fascismo». Tenuto in grande considerazione dal duce, Malaparte vorrebbe conquistare Mussolini, ma non riesce a frenare le impertinenze. Finisce per subire il confine a Lipari, sia pure breve e mitigato, ma resta pur sempre, come lo definì Piero Gobetti, «la più bella penna del fascismo».
La Vallecchi, a suo tempo, ne affidava ai lettori le opere preoccupandosi di accompagnarle con una significativa fascetta editoriale: “Piaccia o non piaccia”. E il più delle volte non piaceva. Téchinique du coup d’état, una delle sue prime opere, uscita a Parigi nel 1931 e solo nel 1948 in Italia dove, per quanto apprezzata da Mussolini, era stata proibita, non piace ai totalitari, non piace ai liberali, non piace ai rivoluzionari, anche perché può essere letta come un manuale di difesa dello Stato. La stessa diffidenza resiste oggi. A oltre centoquindici anni dalla nascita e cinquantacinque dalla morte, Malaparte continua a dividere, a provocare, a irridere e le sue opere, tutt’altro che impolverate, hanno ancora la forza di suscitare polemiche destinate a non sopirsi. «Si trova in Malaparte un elemento fascistoide che non si smentisce mai: il gusto della forza, sola vera ideologia di un uomo che le disprezzava tutte», ha scritto Enrico Mannucci presentando ai lettori di Sette la biografia di Serra che, da parte sua, è più che consapevole dell’ambigua ruvidità di Malaparte. Lo chiarisce sin dalla premessa: «Vi sono molte ragioni, tutte legittime, per non amare Malaparte uomo, scrittore e personaggio». Ma nessuna può negargli un posto di primo piano tra gli interpreti più singolari di un Ventesimo secolo le cui inquietudini si prolungano nel nostro.
«La sua coerenza interna – aveva scritto sempre Serra nel catalogo della mostra “Malaparte. Arcitaliano nel mondo” – può non piacere alle anime belle, ma è indiscutibile, come lo è il suo coraggio. Un solitario “eroe (o antieroe) del nostro tempo, che ha respirato l’aria mefitica delle ideologie totalitarie senza esserne intossicato e ha cercato di riproporre una visione dell’Uomo moderno ricalcata dai tragici greci che tanto amava, impasto di grandezza e cinismo, di ideali e servitù in cui, da buon Narciso, rispecchiava se stesso ».
Il pregio principale dell’opera di Serra, forte di una documentazione più vasta di quella sinora utilizzata (tra cui i rapporti della polizia francese e alcune lettere), è quello di aver smantellato l’ultimo stereotipo, tanto resistente quanto sgradevole – quello del voltagabbana che abbandona una dopo l’altra le cause perse per offrirsi ai vincitori – che ha a lungo ostacolato la comprensione della sua opera e della sua figura. Lo fa senza tacerne i difetti, in alcuni casi la cialtronaggine, l’ego ipertrofico di chi ha la sfrontatezza di evocare Napoleone con il proprio nom de plume. Al di là del personaggio, tuttavia, spogliato della maschera di dandy impenitente e di viveur, Serra rivela una volta di più la meritata dimensione europea di uno scrittore che a soli trent’anni dirige un quotidiano come La Stampa, che partecipa a Strapaese con Leo Longanesi e a Stracittà con Massimo Bontempelli, che pubblica i suoi romanzi fuori dall’Italia, che incontra e stabilisce rapporti con intellettuali di varie nazioni, che per primo prova curiosità per mondi lontani e sconosciuti ai più. Che, come testimonia Serra, è apprezzato anche fuori dai cenacoli autoreferenziali di casa nostra. Henry Miller, ricevuta una copia con dedica de La Volga nait en Europe, così risponderà al nostro: «Sono arrivato a metà del suo libro e faccio fatica a posarlo. Non conosco nessun corrispondente di guerra di lingua inglese che abbia il suo approccio poetico».
«Un uomo spavaldo», lo ha definito Giorgio Napolitano che conobbe e frequentò Malaparte nel gennaio 1944 a Capri, dove una parte della famiglia del presidente della Repubblica era stata evacuata dopo i bombardamenti e la carestia che avevano messo Napoli in ginocchio. Nel libro di Serra è pubblicato uno scritto inedito di Napolitano in cui il presidente ricorda l’ammirazione che i giovani di sinistra provavano per Malaparte nel dopoguerra. La riabilitazione, finalmente, è arrivata. A nessuno venga in mente, però, di tirarne fuori una fiction televisiva, magari affidando a Elio Germano il ruolo di Malaparte. Il salto tra un cosmopolita e un fasciocomunista sarebbe ingeneroso, oltre che fuori luogo. E Malaparte, con tutti i suoi (ostentati) difetti, no, non se lo merita.
Roberto Alfatti Appetiti

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